Quelle antenne metalliche, piazzate lì, nel bel mezzo del parco vibravano quando soffiava il vento e, a seconda della sua intensità e della sua direzione, davano luogo a rumori strani, imprevedibili ed inquietanti. Era questo il Giardino del Suono.
Una musica pura, cattiva, viscerale, che veniva direttamente dall’hard-rock degli anni settanta ed amava lasciarsi sporcare e contaminare da sonorità metal e psichedeliche, da atteggiamenti critici nei confronti della società e da tematiche punk e che non disdegnava, in misura minore, sconfinamenti nella tradizione del country e del folk americano. Una miscela esplosiva, che i media dell’epoca cercarono in tutti i modi di definire, di piegare ai loro scopi commerciali e di istituzionalizzare e normalizzare. Ma quando pensarono di esserci finalmente riusciti, era già tutto finito; era già tutto passato; nuovi soli neri stavano spuntando all’orizzonte e il Giardino del Suono, che era stato battezzato come la faccia più metallica del grunge, era già un ricordo, un pegno pagato al Tempo trascorso.
Quando tutto diventa troppo noioso e ripetitivo, quando tutto diventa solo una vacua questione di soldi ed interessi materiali, quando diventa troppo pesante restare fianco a fianco con le persone con cui avevi iniziato questo splendido viaggio, è inevitabile farla finita. Le mani sono fatte per essere strette, non certo per incatenare, eppure precipitiamo continuamente nei nostri giorni più bui e nei nostri atteggiamenti violenti ed aggressivi. Non dovremmo mai imprigionare qualcosa o qualcuno che vorremmo vedere librarsi libero nell’aria. I nostri mutabili sentimenti, il nostro umore negativo, la superbia e l’orgoglio, la rabbia accumulata, giorno dopo giorno, spesso, ci fanno essere stupidi, peggiori e soprattutto crudeli con coloro che, invece, avremmo desiderato solamente amare. Dovremmo essere tutti come “Artist the Spoonman”, l’uomo dei cucchiai, che si esibisce, da anni, per le strade della città. Lui, con il suo esempio, il suo ritmo, la sua semplicità, è l’unica creatura che può salvarci, che può mostrarci le cose per quello che effettivamente sono, che può indicarci la strada da seguire, che può farci comprendere come gli oggetti che bramiamo e che riteniamo importanti, in realtà, sono del tutto inutili ed effimeri; un triste tentativo per imporre la propria forza, per sentirsi parte di una società a cui non interessa affatto se siamo felici o meno.
Se non ci sbrighiamo, rischiamo di restare intrappolati per sempre in un vicolo cieco, in balia del Tempo, che ruba a tutti qualcosa, tanto all’uomo onesto, quanto alla serpe più velenosa. Ed alla fine, per tutti noi, giungerà la stessa dolorosa e solitaria fine. Ma non è sano rintanarsi in questa ovvia verità; la fine non può trasformarsi nel banale ed effimero pretesto per sentirsi, perennemente, giù di morale; per chiudersi in sé stesso e godere del proprio esaurimento nervoso, spirituale e fisico. Se ti limiti a guardare sempre lo stesso film, la storia sarà vecchia prima di incominciare. È come camminare su una corda tesa, con delle scarpe che pesano un paio di tonnellate. L’ultima canzone di “Superunknown”, l’album più radiofonico e noto alle masse dei Soundgarden, pubblicato nel 1994, “Like Suicide”, “Come un Suicidio”, finisce con dei versi profetici su quello che sarà il futuro della band e dello stesso movimento generazionale che ne era stato l’humus creativo: “she lived like a murder, but she died just like suicide”. È questa la fine dell’Amore? È questa la fine della Passione nelle cose che ci hanno resi vivi e ci hanno dato la forza e la volontà per andare avanti ed affrontare i problemi quotidiani?
Il sapore della fine è sempre stato aspro. “Lei ha vissuto la sua vita come un omicidio, ma alla fine è morta proprio come un suicidio”. Una metafora che ha dato adito a varie spiegazioni: chi ha parlato, semplicemente, della fine d’un rapporto d’amore difficile e complicato; chi ha tirato in ballo l’epilogo dei Nirvana; chi ha presentato queste parole come un atto di pietà nel dare la morte ad una creatura innocente che stava soffrendo troppo e non aveva più alcuna speranza di poter ritornare ad essere libera; chi, oggi, dopo anni, ha pensato proprio allo stesso Chris. Ragionamenti superflui. Ciò che è evidente è che, alla fine, qualcosa si interrompe e finisce improvvisamente. La Morte, possiamo invocarla per un’intera esistenza, possiamo agire con l’obbiettivo di incontrarla, ma sarà tutto inutile e vano; possiamo fingere d’aver previsto ogni cosa, possiamo convincerci che sia stata una nostra decisione, ma non è stato e non sarà mai così. Noi non decidiamo per lei.
E ciò che resta, alla fine, è solo un grande ed immenso senso di vuoto.
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