Abbiamo i giorni contati, ci restano esattamente solo cinque anni prima che il mondo vada completamente in rovina: è così che si apre “The Rise And Fall Of Ziggy Stardust And The Spiders From Mars” (1972, David Bowie), con una notizia tremenda, che il duca bianco, presagendo il ruolo sempre più rilevante che i mass media avrebbero avuto nella società del futuro, immagina sia diffusa dalle TV. Se all’inizio degli anni Settanta ciò poteva apparire una scelta stravagante ed un’ipotesi quanto mai azzardata, frutto dei deliri distopici e delle fantasie sceniche di un uomo di spettacolo, oggi fa parte della quotidianietà: quante volte ci siamo imbattuti in questo grido d’allarme, tra un episodio e l’altro della nostra serie TV preferita o del talent show che ci piace tanto? Il mondo è malato, le risorse naturali scarseggiano, l’uomo minaccia seriamente gli equilibri millenari della Terra e se tutte le nazioni del globo non si decideranno ad adottare delle politiche concrete di salvaguardia e di protezione dell’ambiente, cosa credete possa accadere a breve? Si tratta degli scenari apocalittici descritti da un artista folle e visionario oppure siamo davvero dinanzi a dei processi e dei meccanismi che potrebbero sfuggirci di mano e divenire irreversibili?
Il rullo di tamburi ed i piatti creano il ritmo su cui le parole tragiche e disperate di Bowie si innestano alla perfezione: l’annuncio è seguito da scene di delirio. Chi si abbandona al pianto e chi chiede perdono; le madri si tengono strette al petto i propri figli; i telefoni iniziano a squillare come impazziti; le reti si intasano; in tanti perdono completamente il controllo ed iniziano a dare sfogo agli istinti più bestiali, quelli che avevano sempre celato dietro le loro maschere di apparente normalità.
Sembra quasi di essere davanti alle scene brutali che Stephen King descrive nella parte iniziale del suo celebre “L’Ombra dello Scorpione”, quando la popolazione mondiale sta per essere decimata da un terribile virus e la gran parte di quei pochi che risultano essere immuni al contagio si lasciano prendere dal delirio e dalla violenza. Ogni abuso diviene lecito e nessuno sembra poter essere in grado di fermare la spirale di crudeltà ed abominio in cui il genere umano ha deciso di sprofondare.
Non è la prima volta che il mondo del rock tocca con mano il tema della fine: il mondo muore perché gli uomini credono di esserne i padroni, pensano di potersi sostituire alle leggi della natura, e solo quando quest’ultima si ribella comprendono – spesso troppo tardi – quanto siano piccoli ed indifesi rispetto le misteriose forze che governano l’universo e quanto siano effimeri ed inutili tutti i marchingegni e le diavolerie di cui amiamo crogiolarci.
Difendere la natura equivale a garantirci la sopravvivenza; già nel 1970, Joni Mitchell, nelle sonorità folk di “Big Yellow Taxi” (1970, “Ladies Of The Canyon”), parlava della distruzione dei nostri paradisi – cioè degli spazi verdi ed incontaminati – per costruirci dei banali parcheggi. La cantante canadese profetizzava l’esistenza di musei degli alberi ed oggi, in effetti, non siamo così lontani dalla verità: cosa sta accadendo alla foresta Amazzonica ed alle altre grandi aree verdi del nostro pianeta? In tal senso, le scelte di influenti leader politici, come Trump o Bolsonaro, non lasciano presagire nulla di buono. Forse domani, per vedere un albero, dovremo davvero entrare in un museo.
Ma ciò che riserviamo alla terra, purtroppo, lo stiamo riservando anche al cielo ed alle acque: fiumi ed oceani sono al collasso; nel 1986, in “Lifes Rich Pageant”, i R.E.M. denunciarono tutte le promesse che l’America aveva dimenticato e tradito – riferendosi anche alle condizioni del fiume Cuyahoga, in Ohio. Un luogo che per i nativi americani era puro ed incontaminato, oggi è il simbolo della sciaguratezza e della stupidità delle nostre politiche d’espansione; non solo di quell’antico popolo, capace di vivere in armonia con tutto il creato, non vi è quasi più traccia, ma addirittura stiamo avvelenando la stessa terra che ci ospita e ci sfama, le sue sorgenti, l’aria che respiriamo e così facendo stiamo avvelenando non solo noi stessi, ma anche i nostri figli.
Possiamo illuderci di essere più forti, possiamo convincerci che le nostre baleniere, quelle che i Pearl Jam denunciano in “Whale Song” (2007, “Artic Tale Soundtrack”) siano indistruttibili, ma in realtà saranno proprio questa ottusa ostinazione e questo delirio di onnipotenza, a farci schiantare, a far sì – per dirla con Herman Melville – che il bianco, solitamente simbolo di innocenza, virtù e purezza, si trasformi nel bianco del vuoto, del nulla e della morte.
La natura, quindi, può essere la nostra salvezza, ma può trasformarsi nella nostra condanna e nel nostro castigo; nessuna tecnologia – per quanto evoluta – può renderci immuni alla furia devastatrice di Moby Dick, a cui anche John Bonham ed i Led Zeppelin decisero di rendere omaggio (1969, Led Zeppelin II) con l’omonimo brano, al cui ritmo forsennato ed alla cui intensità nessuna batteria sembrava riuscire a sopravvivere, giungendo nelle esibizioni dal vivo (celebre quella contenuta in “How The West Was Won”) anche a ben venti minuti di pura potenza.
Gli alberi sono le colonne del mondo, recita un antico proverbio dei Sioux, e quando anche l’ultimo albero verrà abbattuto allora sarà davvero troppo tardi ed il cielo cadrà su tutti noi, indipendentemente da quanto siano comode le nostre case, veloci le nostre aute o ricchi i nostri conti bancari.
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