“Made my way upstairs and had smoke”, un esplicito invito a fumare marijuana? O come sostenne la band inglese, all’epoca dei fatti, l’innocua descrizione di un incidente e le sensazioni provate dalla povera vittima? Fatto sta che la BBC decise, nel ’67, di censurare quella che è una delle canzoni più belle dei Beatles.
Oggi, una frase così ci fa sorridere, ma non possiamo fare altrettanto se ci soffermiamo a riflettere su ciò che oggi è censura. Non siamo più nel 1967, è vero, ma non possiamo assolutamente ritenere che la censura sia qualcosa che ci siamo lasciati definitivamente alle nostre spalle. Anzi, nella complessità e nella vastità del mondo virtuale, essa si è trasformata; è diventata più subdola e più incisiva; soprattutto perché può far leva su nuove frecce nel suo arco, come, ad esempio, la diffusione indiscriminata e pericolosa di fake news o l’utilizzo violento ed incontrollato che e possibile fare del web, tra heaters virtuali, campagne di diffamazione e diffusione indiscriminata di video, foto o altri contenuti rubati alla privacy delle persone.
L’occhio digitale è in grado di rovistare e scandagliare, in qualsiasi momento, le nostre esistenze, può rubarci la nostra intimità, decontestualizzarla ad arte ed utilizzarla contro noi stessi, tentando di minare la fiducia, la stima e la considerazione di coloro che osservano il nostro operato.
Non è, forse, una forma più infida e maligna di censura? Se nessuno è più disposto a credere a ciò che diciamo o scriviamo, ad ascoltare le nostre canzoni, a prestare attenzione alle nostre parole, non è ciò che tutti i censori di questo mondo desidererebbero ottenere?
Come si combattono, dunque, queste fake news e queste violenze digitali?
Innanzitutto è necessario trasmettere, una volta per tutte, un concetto fondamentale: non esiste nessuno autorizzato a stabilire la Verità – né una parte o un partito politico, né un tribunale, né un sindacato, né un ente o un’organizzazione di qualsiasi tipo essa sia – la Verità non ha alcun padrone; di conseguenza nessuno può invocare la chiusura di giornali, programmi televisivi o siti web; nessuno ha il diritto di chiedere il silenzio contro i propri nemici o semplicemente contro chi la pensa diversamente; il diritto alla critica è una garanzia fondamentale.
È una stupidaggine, quindi, ad esempio, una stupidaggine che andrebbe perseguita, il tentativo delle nostre forze dell’ordine di evitare alle persone comuni, con i loro selfie ironici o i loro striscioni, di sbeffeggiare l’attuale ministro dell’interno, così come è un reato istigare la violenza, con incitamenti ad ammazzare un politico col quale siamo in aperto disaccordo e che riteniamo possa divenire una minaccia per la nostra libertà. Ma, allo stesso tempo, è ridicolo sospendere una professoressa perché ha lasciato liberi i propri studenti di esprimere le proprie idee, andando ad ipotizzare un parallelo tra le leggi emanate negli anni ’30 del secolo scorso e l’attuale decreto sicurezza. Per quanto mi riguarda si tratta di un paragone esagerato, sono convinto che oggi la Repubblica Italiana abbia tutti i mezzi e gli anticorpi necessari per disinnescare eventuali rigurgiti fascisti: se qualcuno tentasse di emanare leggi razziali, il Presidente della Repubblica non esiterebbe un attimo a respingere e la Corte Costituzionale le cancellerebbe immediatamente. Il fascismo fu ben altro e la professoressa di Palermo, invece che essere allontanata dalla propria scuola e censurata, dovrebbe poter rimanere al suo posto ed avere la possibilità di guidare i propri studenti nello studio du quelli che furono, senza alcun dubbio, gli anni più bui della nostra storia, che non vanno assolutamente banalizzati o utilizzati, per i propri fini, dalle così dette intelligenze di parte per attaccare e discriminare chiunque non sia appartenente alla loro fazione politica.
Se da un lato la musica è stata sempre oggetto delle invettive di dittatori, finti moralizzatori e capi religiosi, ha anche avuto anche la forza, soprattutto nel passato, di riuscire a sensibilizzare l’opinione pubblica su importanti questioni politiche, sociali ed economiche a livello globale, soprattutto quando il termine “globalizzazione” non era divenuto così abusato. Potremmo citare, ad esempio, la raccolta fondi del “Live Aid” del 1985 in risposta alla tremenda carestia etiope; il concerto tenutosi a Wembley nel 1988 per celebrare la liberazione di Nelson Mandela ed auspicare la fine dell’apertheid; il concerto del 1990 a Berlino per celebrare la caduta del muro e la fine della guerra fredda; l’esibizione degli U2 nel 1997 in una Sarajevo distrutta dall’odio e dalla guerra.
La società attuale, con la sua liquidità digitale, è volta soprattutto all’esaltazione ed alla celebrazione del singolo e dei suoi risultati personali; gli artisti, di conseguenza, spesso, sposano questo approccio, ne sono influenzati, andando così a privare la musica del suo contenuto più politico e sociale, ma preferendo proporre lavori che esaltano l’individuo, le sue necessità materiali e la realizzazione dei suoi bisogni. Ma la musica dovrebbe tornare ad occuparsi del mondo, delle nostre problematiche comuni ed anche delle nostre grandi utopie. Oggi si tende a prender per buona ed accettare la realtà per ciò che è, a fornire un manuale di sopravvivenza al singolo individuo in un mondo in cui ciascuno è un potenziale avversario e nemico, piuttosto che porsi l’obiettivo di costruire un’altra realtà, nella quale non si è necessariamente costretti a sopravvivere ed il prossimo, soprattutto se condivide le nostre stesse difficoltà ed ancor di più se se la passa peggio di noi, non è un nemico, ma un potenziale alleato per urlare con forza le nostre ragioni. Se siamo in più a parlare, sarà più difficile censurarci – non importa se si tratti di pop o rock, rap o hip hop, reggae o punk, o persino la tanto disprezzata trap – ciò che fa la differenza non è la forma, soggetta ai nostri gusti ed alla nostra storia, ma è la forza e l’incisività del contenuto.
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