Dopo 12 anni i Tool ritornano in Europa. Una lunga attesa, nella quale il mondo è andato inevitabilmente avanti, senza controllo, e le cose sono profondamente cambiate; spesso, decisamente in peggio. I Tool, no. I Tool, come il buon vino, più passano gli anni e più migliorano. La loro musica è ancora più affilata; una lama d’acciaio che scava nella nostra mente, raggiungendo gli angoli più celati e dimenticati del cervello, per estirparne il contenuto, quello buono sì, ma soprattutto quello cattivo.
Le sonorità intricate e possenti di “Ænema” danno inizio allo show: le prime massicce note esplodono, micidiali e fragorose, nell’oscurità; poi, all’improvviso, le luci e le crude e viscerali immagini proiettate sugli schermi, sopra ed ai lati del palco, risvegliano l’arena fiorentina, trasformandola nella fornace ardente d’un vulcano.
I Tool scoprono continuamente il coperchio del baratro e ci guardano dentro; nessun dannato buco – per quanto profondo – li spaventa. Ogni singolo neurone viene rivoltato dall’interno; la musica si fa sempre più densa e sulfurea, l’ideale colonna sonora per un viaggio nell’inferno che esiste in ciascuno di noi. Un vero e proprio muro sonico si abbatte sul pubblico, le classiche “The Pot “ e “Parabola” ci conducono, tutto d’un fiato, al primo dei due nuovi brani proposti: “Descending”. Una canzone che inizia in maniera psichedelica ed introspettiva; sembra tutto così dolce, ma poi, all’improvviso, senza rendertene assolutamente conto, ti ritrovi intrappolato nella sua morsa; è così stretta, che fai fatica a respirare ed a controllare i tuoi stessi pensieri. È il momento di scendere, quindi, in quest’inferno interiore di privazioni e di paure – spesso nascoste, ipocritamente, dietro il bel nome di Dio e dei suoi precetti – e fare i conti con i nostri diavoli custodi, sempre pronti a distribuire colpe a destra ed a manca, pur di tenerci nascosta la Verità.
Le esibizioni dei Tool sono giunte ad un livello che oserei definire mistico e geniale, un mix equilibrato e sapiente di potenza ed armonia, carne e spirito, capace di entrare in sintonia con il lato passionale di ciascun spettatore presente. Questo è il loro segreto, qui sta tutta la loro magia. Maynard James Keenan, in ombra, come sempre, accanto alla batteria, scopre e svela il nostro baricentro esistenziale, lo mastica con piacere e poi lo sputa via. Perché, in fondo, questo è il nostro mondo, un mondo drogato dalle sue finte e menzognere tragedie quotidiane. Mentre noi, poveri tossici, godiamo, ogniqualvolta qualche sciocco viene trasformato nel nuovo martire, nell’agnello sacrificale che può morire sugli schermi illuminati delle nostre TV, dei nostri smartphone o dei nostri tablet e noi ce ne stiamo, tranquillamente, seduti in salotto.
Il finale, affidato a “Vicarious” e “Stinkfist”, è una sfrerzata di progressive-metal, di sonorità oscure e vibranti, di ritmiche epiche e di atmosfere maledettamente acide e psichedeliche; mentre, nel frattempo, i laser vengono lanciati a sfidare il buio oppressivo della notte e la band americana continua, imperterrita, a sputare fuori tutto il suo dolore, perché il dolore è l’unica via di cui disponiamo per salvarci e per sentirci vivi. In un certo senso, quindi, siamo dei vampiri che bramano continuamente sangue, ricordi, emozioni, storie. Accumuliamo frammenti: ammuffiti, ribollenti, affogati, non importa… tanto ogni cosa, alla fine, si sbriciolerà in un piano astrale di libidinoso piacere ed a noi non resterà che tornarcene a casa, provati e soddisfatti, in attesa del prossimo concerto dei Tool.
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