1975.
Nell’anno dei festeggiamenti per il bicentenario, l’America si presenta profondamente delusa e divisa: Saigon è caduta e gli Americani fanno i conti con quella che è la più bruciante sconfitta della loro storia. Intanto la crisi economica divampa, soprattutto nelle periferie e nelle zone più rurali della nazione, dove il mito del Sogno Americano sembra essersi trasformato in un terribile e minaccioso incubo e dove sembra non esserci più alcuna possibilità di redenzione e di salvezza. La Terra delle opportunità pare non averne più da offrire ed essersi risvegliata all’improvviso più debole, più fragile, più vuota, più indifesa. Persino la convinzione di esser un simbolo universale e di agire non solo per sé stessa, ma per il benessere e la prosperità dell’intera umanità, pare essere venuta meno ed essersi ridotta ad uno slogan menzognero ed ipocrita dietro cui nascondere ogni tipo di nefandezza ed intromissione.
È questo lo scenario nel quale il signor Tamburino decide di organizzare il suo “Rolling Thunder” e girare la nazione – non solo le grandi città, ma soprattutto le periferie più marginali e tutti quei luoghi remoti che rappresentano il ventre più molle e feroce d’America – per toccare con mano la frustrazione e la sofferenza, ma soprattutto per offrire, con le sue parole e la sua musica, una visione alternativa del futuro e tentare di ricomporre le evidenti fratture e gli strappi, da troppo tempo ignorati, esistenti nella società Americana. Perché, in fondo, è evidente che se siamo uniti, se ci fidiamo gli uni degli altri, se superiamo le diversità e le reciproche paure, allora, possiamo essere più forti, far fronte comune e riconquistare tutto quello che abbiamo perduto, ad iniziare dalla nostra dignità di uomini e donne liberi.
Bob Dylan non è solo in questo viaggio, ma decide di circondarsi di amici artisti, aggiungendone sempre di nuovi man, mano che il suo carrozzone si sposta da una città all’altra, perché il concetto che è alla base del tour è molto semplice e diretto: suscitare il bello nelle persone comuni, mostrando loro il bello. Un bello che si concretizza nelle poesie di Allen Ginsberg, nelle maschere e nel trucco bianco mostrato durante gli show, nello straordinario e coinvolgente supporto offerto da Joan Baez, Joni Mitchell, Roger McGuinn, Ronee Blakley, Jack Elliott, Bob Neuwirth e la violinista Scarlet Rivera che si esibivano in piccoli locali, supportati, spesso, dal semplice volantinaggio fatto il giorno stesso dello show, quando il pulmino di Dylan giungeva in città. L’atmosfera del documentario e quella del tour è, infatti, intima ed artigianale, ma è ricca di momenti epici ed esaltanti, come quando compare il pugile Rubin Carter e prende il via quell’inno di libertà e giustizia che è “Hurricane”.
Martin Scorsese riesce nell’impresa di far comprendere, a chi per motivi anagrafici non li ha potuti vivere, cos’erano e cosa possono rappresentare oggi gli anni Settanta del secolo scorso. “Era talmente tanto tempo fa, che non ero ancora nato”, dice un Dylan ironico ed invecchiato. Ma, invece, il messaggio giunge forte e chiaro: mettere in discussione sé stessi, mettere in discussione la società di cui si è parte, perché la nostra esistenza non è semplicemente appropriarsi e conquistare qualcosa che non possediamo ed a cui bramiamo, ma è riuscire a soddisfare i nostri sogni, lasciando nel frattempo un mondo migliore ed abbattendo tutte le ingiustizie e le discriminazioni esistenti. Riprendendo le parole di Dylan, è necessario creare sé stessi: ogni giorno, ogni attimo, senza alcuna paura e senza alcun timore riverenziale, perché come recitano i versi della toccante “The Lonesome Death of Hattie Carroll”, questo non è il momento per le lacrime.
“Ma voi che filosofate sulle disgrazie e criticate tutte le paure,
toglietevi il fazzoletto dalla faccia.
Non è il momento per le vostre lacrime”
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