La leggenda narra che Robert Johnson abbia venduto, in un polveroso incrocio, sperduto tra le campagne del Mississippi, la propria anima al Diavolo, per riceverne in cambio il suo eccezionale talento blues. La sua vita e la sua morte sono avvolte nel mistero, ricostruite, a posteriori, solo grazie a certificati di nascita e di morte. Robert morì dopo giorni di sofferenza, ucciso dal veleno. Si dice gli avessero offerto una bottiglia di whisky già aperta, senza alcun sigillo, che lui, fregandosene del buon senso comune, avesse deciso di bere comunque. Ma chi fu a metter fine alla sua breve esistenza e dar vita a quel ristretto e celebrato gruppo noto come “Club 27”? Un marito tradito? Una donna respinta? Un rivale invidioso? Uno dei tanti benpensanti, avversi a quella musica blues, che i predicatori ritenevano fosse emanazione diretta del Maligno, all’unico scopo di corrompere e dannare, per sempre, uomini e donne di fede? O magari il Diavolo in persona, bramoso di prendersi, finalmente, l’anima che aveva comprato?
L’eredità di Robert Johnson è enorme: negli anni Sessanta era già un mito ed un’icona per artisti del calibro di Bob Dylan e Ramblin’ Jack Elliott, la sua musica influenzò profondamente chitarristi come Eric Clapton, Keith Richards o Jimi Hendrix. Ma ciò nonostante di lui non si sa quasi nulla; ci ha lasciato qualche foto, un certificato di morte ed una baracca, dove si dice sia nato, che ancora oggi si mantiene, miracolosamente, in piedi. Le poche canzoni incise, però, ci hanno permesso di comprendere la grandezza della sua tecnica e della sua musica; una musica fatta di piantagioni di cotone e sofferenza; di schiavitù, catene, sudore e lavoro nei campi, sotto il sole bruciante del Mississippi; di violenze e linciaggi quotidiani; di bettole e alcool; di pelle nera e sangue rosso; di un richiamo ancestrale verso un continente lontano ed i suoi riti e suoni tribali.
Una musica che sarebbe divenuta il seme da cui far germogliare il rock n’roll.
Il suo lascito sono, quindi, solo 29 canzoni, le cui radici sono piantate in profondità nelle tradizioni del Delta del Mississippi, ma ne sono, allo stesso tempo, una fondamentale ed innovativa evoluzione tecnica e stilistica. La sua voce era in grado di essere sia un fiume turbolento, che in un gemito appena sussurrato. Nelle sue canzoni c’è sofferenza per la perdita dei figli e delle donne amate, il senso di colpa per le proprie scelte, l’incapacità ad essere accettato dalla società dell’epoca, le notti passate nei bar e quelle passate sulla strada, in compagnia della luna.
I suoi testi, colmi di riferimenti al Diavolo e alla parte più oscura ed inquieta della nostra anima, sono sia l’embrione di idee e concetti che avrebbero affascinato band come i Led Zeppelin, i Black Sabbath e tanti gruppi metal ed hard-rock, sia un modo indiretto ed intelligente per attaccare i padroni bianchi e potenti delle piantagioni e l’atteggiamento remissivo e sottomesso dei predicatori e dei loro fedeli, incapaci di ribellarsi e rivendicare la libertà delle proprie scelte. Non dobbiamo dimenticare, infatti, che siamo in un’epoca ed un luogo in cui, nonostante l’abolizione della schiavitù, sarebbe stata sufficiente una parola fuori posto o uno sguardo di sfida per esser vittima di un vero e proprio linciaggio. La libertà era qualcosa di estremamente formale, un concetto teorico buono per le carte, ma di applicazione praticamente impossibile negli stati del Sud.
“I said, Hello Satan / I believe it’s time to go” recita Robert Johnson nella celebre “Me and the devil blues”. La sua musica ricca di orrore, ma desiderosa di trovare la salvezza, fatta sia di corruzione, che di purezza, di spirito e di corpo, non morì con lui, ma divenne eterna e continua, ancora oggi, a vibrare ogniqualvolta qualcuno decide di imbracciare la sua chitarra elettrica.
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