Siamo tutti destinati, prima o poi, a finire intrappolati nelle stanze bianche del manicomio di Arkham? La stanza bianca, “White Room”, risuona nella notte in cui Gotham va a fuoco; non ci sono più pavimenti d’oro, ma solo un enorme, mostruoso ed opprimente tetto nero.
“I’ll wait in this place where the sun never shines / Wait in this place where the shadows run from themselves”, cantavano i Cream del compianto Ginger Baker nel ’68. Le ombre che scivolano nelle nostre vite ci mostrano, spesso, una versione deformata della realtà; a volte alterano, addirittura, il nostro passato per costringerci a vivere non il vero presente, ma quello che avremmo desiderato avere. Quando poi, alla fine, ci rendiamo conto che tutto ciò che abbiamo costruito e tutto ciò che crediamo abbia importanza nelle nostre piccole vite, sia solo il risultato di una grande macchinazione, da parte di coloro che ci vogliono tenere buoni e sottomessi, se non vogliamo soccombere all’accettazione ed assistere a quella triste commedia che è la nostra esistenza, il passo più breve è proprio quello verso la follia: “But don’t confide in my smile / Because jokers are wild”, urlavano gli Adicts nella loro “Joker in the pack”. Mai fidarsi, dunque, dei sorrisi di un giullare o Jolly com’era chiamato in Italia il Joker nelle prime edizioni delle storie ambientate a Gotham, i suoi sorrisi sono selvaggi.
“Joker”, la pellicola di Todd Philipps, interpretata da un magistrale Joaquin Phoenix, è proprio così: selvaggia.
Non c’è alcuna intenzione di imporre o suggerire una morale. L’intento è semplicemente quello di rappresentare – senza alcun filtro – la decadenza della nostra società. Joker è simbolo ed emblema dell’esaltazione totalitaria della personalità. Un IO assoluto ed estremamente solo ed infelice, proprio perché confinato nel suo smisurato ego, il cui sorriso è, allo stesso tempo, profondamente triste e profondamente spaventoso. Probabilmente le risate del Joker sarebbero destinate a dissolversi e soccombere sotto il peso degli ingranaggi del Sistema totalitario che ci vuole allineati e prevedibili, se non fosse arrivato a salvarle dall’oblio ed a dare loro corpo e sostanza, anima e spirito, la sua naturale metà: il Cavaliere Oscuro.
Perché è così, Joker e Batman sono le due metà dello stesso processo distruttivo: la rappresentazione mascherata della fine del capitalismo, il sigillo estremo della crisi della società Americana. Una Sistema abietto, rappresentato da business-men in doppio petto – proprio come Thomas Wayne – e dai loro buffoni mediatici – come il celebre showman Murray Franklin interpretato da Robert De Niro – che non nascondono la propria insofferenza ed intolleranza verso quelle che sono le parti più umili, più deboli, più fragili, più povere della nostra società.
Gotham City, quindi, rispecchia a pieno l’America trumpiana; l’America che considera la povertà una colpa, più che una ferita da sanare e che, non riuscendo a trovare la salvezza, si chiude in sé stessa, rispondendo al vero unico buffone al potere con queste figure solitarie, tormentate dai propri fantasmi personali, incapaci di liberarsi del baratro che le spinge verso la follia e la vendetta, privandole per sempre della capacità umana del perdono ed imprigionandole così in un tempo finto, un tempo che non ha più alcun futuro.
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