“May all your dreams come true”, disse una volta la ragazza in una band, mentre scopriva il coperchio che ci impediva di vedere quanta morte e quanta tristezza si nascondessero negli angoli bui della calda, luminosa e sorridente Los Angeles, attraversando nel frattempo la pancia molle del paese, per arrivare finalmente dall’altro lato, su quell’isola scheletrica in mezzo all’oceano, laddove regnano il grigio del cielo ed il nero ed il blu delle ombre enormi che ingoiano la paura delle persone, lasciandole sole, con un grosso buco in mezzo al petto.
È questa l’America? Caos rabbioso che, prima o poi, ci condurrà tutti verso la più oscura pazzia?
Il dolore è naturale; soffrire è doveroso; tutti riescono a comprendere quanto siano burrascosi i tempi moderni; tutti sanno che le cose che ci stanno a cuore tendono a svanire, a sfuggirci di mano ed a perdersi nella foschia perenne che chiamiamo progresso. Servirebbe qualcosa per attirare l’attenzione, per chiamarsi, per mantenere traccia di sé, per restare fedeli a sé stessi, senza prendersi in giro iniziando a recitare la parte finta degli eroi, per poi ritrovarci attaccati a dei fallimenti e niente più. Quando arriva questo momento puoi solo metterti in macchina ed andare via, senza pensare al male fatto e subito, all’alcool bevuto o all’orgoglio eccessivo che ci ha bucato lo stomaco.
È l’unico modo per non spegnersi invano.
Fumati pure le tue sigarette; incazzati quanto vuoi; fai tutto il rumore del mondo; sei sicuro che qualcuno s’accorgerà di te?
Nessuno sa, davvero, quanto è profondo questo nostro inferno; quali sono i suoi limiti? Dove finisce? Se restiamo qui, per quanto tempo riusciremo a mantenere accese le nostre candele? Ci chiudiamo in questo appartamento fumoso, su un a piccola isola alla deriva nello spazio cosmico, facciamo così: mettiamo assieme tutti i pezzi che ci restano, tutte i residui e persino le parti mancanti e vediamo un po’ di dare un senso a questo favoloso casino.
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