martedì, Dicembre 3, 2024
Il Parco Paranoico

Boys don’t cry / Love we tear us apart / How soon in now?

L’Universo se ne frega degli uomini e delle loro piccole ossessioni; l’amore, il potere, la bellezza non hanno alcun senso, sono fragili e passeggeri. Ogni elemento delle nostre brevi esistenze è destinato a sprofondare nelle ombre della notte e a lasciare solo una flebile eco dietro di sè. E solamente le persone che vivono ai margini, lungo i bordi, quelle più sensibili, quelle ritenute eccessivamente strane o addirittura pazze – estraniandosi da tutti quelli che sono i nostri affanni quotidiani – riescono a percepirne il suono.

In questa musica non c’è ansia, perché è solo il mondo reale ad esser dominato dall’ansia, dalla frustrazione e dalle sue assurde e disumane regole di facciata. Le prime note, acerbe e fortemente influenzate dalle sonorità punk chitarra/basso/batteria, portarono i Tre Ragazzi Immaginari (“Three Imaginary Boys”, 1979) a confrontarsi con quell’enorme spazio vuoto che si viene a creare nelle nostre coscienze, quando, finalmente, ci liberiamo di tutto ciò che è solo superflea ossessione. La loro musica e la loro poesia furono la migliore risposta al dolore e all’agonia della società, un modo per superare la consapevolezza d’aver perduto per sempre la propria innocenza e di conseguenza esser costretti a vivere in un mondo falso e bugiardo, sul punto di esplodere da un momento all’altro.

Su questo background i Tre Ragazzi Immaginari costruirono la perfetta trilogia gotica “Seventeen Seconds”, 1980 / “Faith”, 1981 / “Pornography”, 1983. Tre mondi cupi e malinconici, nei quali il Tempo e lo Spazio diventano sempre più sfumati e rarefatti; una nebbia grigia che fagocita ogni cosa e ciò che resta è solo quiete, immobilità, pace: è il momento giusto per ascoltare una giovane donna cantare. Ma siamo davvero sicuri che sia tutto vero? Se fosse solo un sogno? Magari è proprio questa la risposta ed allora la nostra ricerca risulterebbe completamente vana, ci perderemmo per sempre, ritrovandoci, alla fine, del tutto soli ad attendere invano un momento, un segnale, un presente, un adesso che non arriveranno mai più, “How soon is now?”, 1984.

Le persone comuni, immerse nei loro affari, sono ignare dei cambiamenti che accadono nell’oscurità, non li vedono o preferiscono, per propria convenienza, ignorarli. Continuano a cercare qualcosa che nel mondo moderno, iper-tecnologico e super-informatizzato, ma non troveranno mai. E quando si renderanno, davvero, conto della loro impotenza, sarà troppo tardi; il ghiaccio sarà ovunque, persino sui loro occhi, ormai incapaci ad aprirsi, così come sulle loro labbra, incapaci d’emettere una semplice richiesta d’aiuto. Quando iniziamo a scivolare nel baratro, chi o cosa può salvarci?

Alcuni si aggrappano alla propria fede, altri ad idee, a volte estremamente pericolose, a volte banali, ma il Tempo porterà via con sè tutto ciò che riteniamo essere importante, ad iniziare dal nostro aspetto fisico: la nostra bellezza appassirà; le nostre passioni si spegneranno; i nostri pensieri diventeranno incomprensibili. Il Tempo, in fondo, è una malattia che non può essere curata; l’unico sollievo è quello di non opporsi, ma lasciarsi trasportare verso il bagliore elettrico che ci attende alla fine del nostro cammino.

Spesso ci soffermiamo solo su ciò che appare, sulla forma, su ciò che è appariscente e strano, come il bianco del cerone, i capelli cotonati o il rosso intenso del rossetto, sorvolando sul fatto che la nostra società, per alcuni, è profondamente estraniante. Chi non vuole uniformarsi, chi non vuole essere definito e catalogato, chi non si piega a precetti contorti e perbenisti, può cadere in una morsa che lo conduce a scegliere una strada sbagliata, credendo di poter superare il proprio malessere, diventare insensibile ad ogni umiliazione e trovare, finalmente, l’amore. Questa strada si chiamava eroina; in tanti persero i propri cari, i propri amici, quelli che ritenevano i propri miti, i propri idoli, i propri ispiratori, nel nome di un amore che, a volte, ci distrugge, facendoci letteralmente a pezzi, “Love we tear us apart”, 1980.

Sarebbe bello se potessimo sempre riderci su, se le risate potessero coprire tutte le bugie che siamo costretti a digerire, nascondendo, nel frattempo, il nostro dissenso e le nostre lacrime di dolore misto a rabbia e sconforto. Sarebbe davvero bello se i ragazzi non fossero costretti a piangere mai, “Boys don’t cry”, 1979.

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About The Author

Michele Sanseverino, poeta, scrittore ed ingegnere elettronico. Ha pubblicato la raccolta di favole del tempo andato "Ummagumma" e diverse raccolte di poesie, tra le quali le raccolte virtuali, condivise e liberamente accessibili "Per Dopo la Tempesta" e "Frammenti di Tempesta". Ideatore della webzine di approfondimento musicale "Paranoid Park" (www.paranoidpark.it) e collaboratore della webzine musicale "IndieForBunnies" (www.indieforbunnies.com).

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