Da un lato il conformismo sociale alla perenne ricerca di fama ed affermazione pubblica, dall’altro lato l’autosufficienza emotiva.
Nel primo caso siamo confinati in un cerchio, ne siamo il centro assoluto e definiamo tutto ciò che ci circonda come normale o meno a seconda se sia incluso oppure no entro il confine della nostra ben definita circonferenza e più diventiamo autorefenziali, più il nostro cerchio si restringe ed infine collassa, nell’illusione di essere unici, assoluti ed indispensabili. La stessa illusione che si intreccia con le sonorità elettroniche e le parole del brano “It’s No Good” dei Depeche Mode: “Don’t say you’re happy / out there without me / I know you can’t be / ‘cause it’s no good”.
Nel secondo caso il bisogno di indagare ed indagarsi diventa il principio irrinunciabile della nostra fuga lungo i duplici rami dell’iperbole: il buio e la luce, la forma ed il contenuto, l’anima ed il corpo, l’ordine ed il caos, col rischio, però, di allontanarsi sempre più dai fuochi della realtà e ritrovarsi inesorabilmente privato di qualsiasi legame umano ed affettivo: “there is no you / there is only me”, ripete Trent Reznor dei Nine Inch Nails nel brano “Only”.
Nel mezzo, tra quelle che sono due diverse forme di narcisismo ed incomunicabilità – che la società fluida del web marketing e della social media addiction alimenta, sostiene ed incoraggia – ci siamo noi, le persone normali, quelle alla continua ricerca della loro giornata perfetta, quella nella quale ci sentiamo davvero appagati e felici. Ma come riconoscere la felicità? Potrebbe essere una semplice giornata di sole trascorsa al parco in compagnia della persona amata oppure potrebbe essere il veleno che ti entra in circolo, ti ammalia e ti fa soffrire; è difficile prevedere quello che troveremo lungo il cammino, ma, probabilmente, come sussurra Lou Reed in “Perfect Day”, alla fine, ciò che raccoglieremo è ciò che avremo seminato in passato e nulla più: “You’re going to reap just what you sow”.
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