Elaborare qualcosa che è stato causa di sofferenza è un’operazione difficile perché devi fare i conti con i tuoi sensi di colpa, con i tuoi limiti personali, le lacrime versate – il più delle volte inutilmente – e soprattutto con i tuoi errori. È un percorso irto di ostacoli, ma quando arrivi finalmente alla fine, ti senti di conoscere meglio te stesso ed è il momento, allora, di ridefinire il modo con cui affronti la vita e ti relazioni agli altri.
Spesso ci attacchiamo a situazioni, persone o cose che siamo convinti ci facciano bene e siano fondamentali per il nostro equilibrio, ma poi, dopo il processo di rielaborazione dei nostri stessi sentimenti e delle nostre emozioni, concludiamo che stavamo solo vivendo qualcosa di malsano, eravamo finiti in una palude e stavamo lentamente, ma inesorabilmente, affogando.
È cosi che nasce questo secondo album di Alexandra Savior, da Portland, nell’Oregon, come una sorta di cammino interiore verso l’accettazione ed il ritrovato equilibrio: da un lato, quindi, Alexandra dà vita ad atmosfere cinematografiche e spettrali, cariche di tensione e malinconia, nelle quali l’abbandono, la solitudine ed il dolore assumono vera e propria consistenza materiale; dall’altro il disco nel suo insieme è sferzato dai venti della speranza, dalla voglia di tirarsi fuori dalla palude e riprendersi la propria libertà. È l’unico modo di guarire dall’isolamento nel quale ci siamo rifugiati.
Non è un cammino lineare ed il disco, a volte, ne risente: ci sono momenti di stallo, ma tutto sommato la suadente e coinvolgente voce dell’artista americana, che passa dall’essere calda, limpida e sognante, all’essere dolente, torbida e meditativa, unita al suo interessante e fresco song-writing, si sposa, con naturalezza, alle diverse sonorità che convivono nel background: il trip-hop, che pulsa dalle ferite aperte nello spirito, si mescola a panorami e scenari dream-pop retrò ed accattivanti ed il cielo, che era grigio, metallico e pesante, si fa pian, piano sempre più terso.
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