Lo slowcore dei Duster, con le sue sonorità scheletriche, i luccichii improvvisi nel buio profondo della notte, le lente e meditative atmosfere post-rock, che si propagano verso indefiniti e misteriosi orizzonti spazio-temporali, non aveva smesso di esistere, aveva semplicemente iniziato ad esistere in forme diverse ed ora è nuovamente qui, incurante del tempo che abbiamo misurato o dello spazio che abbiamo percorso.
Sì, è vero; probabilmente ci eravamo persi – “don’t you know I’m lost?” – ma adesso, alla fine, ci siamo ritrovati e possiamo tornarcene a casa. Questo nuovo album, l’album del ritorno a casa, “Duster”, arriva dopo vent’anni dai precedenti lavori “Stratosphere” del ‘98 e “Contemporary Movement” del 2000 e riesce a connettersi ad essi in maniera naturale perché, in fondo, è proprio ciò che capita alle persone che si amano e che si sentono affini. Il legame, come la tela d’una indistruttibile ragnatela d’argento, non si spezzerà mai. A volte esso può sembrarci la trappola definitiva dalla quale non possiamo scappare; a volte esso ci appare come l’unica via possibile per ottenere la liberazione; ma, in fondo, questo legame esprime, semplicemente, la nostra essenza, ciò che siamo, quello che abbiamo dentro, l’unica cosa che può offrirci sollievo quando alziamo lo sguardo verso il cielo e ci rendiamo conto di quanto siamo piccoli, di quanto siamo soli, di quanto siamo deboli, di quanto siamo insignificanti.
Le chitarre, con i loro passaggi più sporchi e contorti e con quelli più lineari e puliti e la voce quasi sussurrata, non fanno altro che proiettare le nostre difficoltà, le nostre incomprensioni ed il nostro immenso disorientamento sullo schermo infinito del cosmo, rendendo la musica dei Duster sempre più inquieta e rarefatta, leggera ed apocalittica, proprio come la consapevolezza di qualcosa di definitivo che sappiamo sta per arrivare e di cui, però, non abbiamo più nessuna paura perché, per quanto possa essere difficile o doloroso, siamo certi che ci riporterà alla nostra vera casa, quella dove non abbiamo vissuto mai. È inutile tentare di spiegare quello che non si può conoscere, è più importante avvicinarsi all’ignoto col cuore più leggero, leggere tra le righe, percepirne ogni suono ed ogni parola, lasciarsi prendere per mano e scoprire cosa c’è oltre le ultime pieghe della fine.
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