Il passato può diventare un mostro e sbranarti, soprattutto se credi di poter tirare a campare, nascosto dietro il bollino che qualche critico o storico musicale ti ha attaccato addosso qualche decennio fa. Se pensiamo che tutto ciò che è nato in Inghilterra tra il ’76 ed il ’77 non possa uscire dal contesto punk, stiamo decisamente sbagliando approccio e dimostriamo di non aver capito assolutamente nulla di quel momento storico, sociale e politico, oltre che dello stesso punk.
La musica rispecchia la società che l’ha prodotta, ne rispecchia le idee, le mode, le tendenze, le leggi e le politiche, anche quando ne denuncia le storture e si schiera contro di esse. L’ambiente circostante cambia, si trasforma, si evolve, ma vi sarà sempre una stretta connessione con la musica; ciò è utile? Può avere effetti positivi sulla società? Può aiutarci a cambiare? Cambierà qualcosa?
Non è mai cambiato nulla, sostengono i Wire, con crudo sarcasmo ed una dose di veleno: “nothing new about that”. Ma a cosa si riferiscono? “Be Like Them” è una canzone che arriva direttamente dal ’77 e che dietro le sue ritmiche scorbutiche ed essenziali nasconde la diffidenza nei confronti di questo capitalismo forzato che pervade e domina, dagli anni Ottanta, la nostra società, soprattutto nelle sue pieghe più problematiche e sofferenti, quelle nelle quali vivono gli ultimi, i più poveri, i più deboli, i più emarginati, che oggi sono talmente assuefatti e soggiogati, da essere i più ostinati nel difendere l’indifendibile. Ed allora, se le cose sono queste, l’unica cosa che possiamo fare è alzare le spalle e mandarli a farsi fottere. Cani rabbiosi che lacerano gli scheletri; ecco è questa l’immagine più appropriata per descrivere ciò che siamo diventati, quello in cui ci ha trasformati il capitalismo che difendiamo strenuamente. E per quanto qualcuno tenti di opporsi, alla fine, non cambia mai assolutamente nulla; cambiano le sigle, cambiano i nomi, cambiano persino le facce, ma i cani restano cani.
L’aggressività e la rabbia punk evaporano immediatamente, si mescolano ad una nube contorta di sonorità sperimentali, elettroniche, oscure, taglienti, nelle quali le sfumature pop riescono, a volte, ad equilibrare le scarne e minimali ritmiche post-punk tanto care ai Wire. Una nube porpora ed una argentata entrano in collisione, producendo la sfavillante e suadente “Cactused” o la pulsante e insonne “Humming” o la penetrante ed ipnotica “Shadows”.
“Mind Hive” è un disco breve, ma è un gran bel disco, perché, in appena 35 minuti, riesce a inglobare e sintetizzare svariati passaggi sonori; come quando rende tossico e morboso il leggero background indie-pop di “Oklahoma” o quando fa ironia sul deprimente e rabbioso punk del brano d’apertura. Ma nonostante la sua limitata durata, quello che ascoltiamo è un album compatto e denso di contenuti, che via, via che lo percorriamo lascia intravedere porte chiuse; porte, che, sono certo, qualcuno, prima o poi, dopo aver imbracciato la sua chitarra o il suo basso, dopo aver connesso le sue tastiere al computer, tenterà di aprire. Magari lo farà con cautela, magari le sfonderà all’improvviso, ma non importa; non importa come lo farà, ciò che conta è non aver paura di andare oltre, evitando strade già percorse dagli altri, diffidando di nomi già sentiti, di etichette già inventate, di bollini già attaccati, di soluzioni già impartite, di teorie già formulate. L’importante, insomma, è essere più forti di tutto quello che si riduce ad essere solamente routine, passato, presente o futuro che sia; solamente così resteremo liberi ed indipendenti, padroni delle nostre scelte e non cani che lacerano i resti di sé stessi.
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