Il razzo sta per partire, come suggerisce l’immagine di Alexander von Wieding rappresentata in copertina; un’immagine che mette in evidenza la dimensione cinematografica di questo disco. Non c’è più tempo per discriminare su quello che è accaduto, su quello che sarebbe potuto o dovuto accadere. C’è un senso d’urgenza che si avverte, sin dal primo brano; in fondo non è importante dove ci porterà questo viaggio: è il viaggio in sé la nostra salvezza e la nostra redenzione. Un viaggio alimentato da sonorità soprattutto di matrice stoner rock, ma che non disdegnano attraversare tutto l’ampio spettro della psichedelia: dall’hard-rock degli anni Settanta al prog-metal degli anni Novanta, fino ad arrivare alle atmosfere sludge e doom attuali. “Explorer”, dunque, si muove non solo nello spazio, andando a scoprire i misteri celati in tutto quello che ci pervade e ci circonda, ma anche nel tempo, perché potremo intercettare e carpire l’essenza del futuro e delle prospettive ed opportunità che esso ci dona, solamente se non dimentichiamo il nostro punto di partenza, quello che eravamo e tutto quello che ha contribuito, nel bene e nel male, a portarci a dove siamo adesso.
L’album risulta essere omogeno nel suo complesso e ci si può immergere all’interno, come se si trattasse di una appassionata ed introspettiva jam session le cui pagine sono eventi della nostra vita. Ci sono passaggi più veloci e divertenti come “206”, altri più ipnotici e meditativi come “Seven Seas” o più vicini al prog-rock come l’iniziale “Vanguard” ed altri ancora, come “Explorer”, che si caricano di passione, turbolenza e chitarre corpose, dando vita ad un oceano sonoro di fuzz, distorsioni ed elettricità in cui è liberatorio perdersi, perché, tutto sommato, lo scopo del viaggio è anche quello della liberazione da tutti quei condizionamenti che ci hanno sempre impedito di essere noi stessi. Condizionamenti che possono essere esterni, imposti dalle persone a cui vogliamo bene e che non vorremmo mai deludere o dalla società civile che ci impone determinate scelte e soluzioni, ma che possono anche essere interiori, cioè dettati dalle nostre paure inconfessate, dalle esperienze drammatiche del passato, dal timore di non farcela ad andare avanti. Intanto “Grissom” ci conduce verso la parte finale del cammino, è un brano fluido e blueseggiante che omaggia il glorioso passato, che ci invita a rallentare, a prendere fiato, a recuperare le energie, a cogliere la bellezza di ogni sfumatura cinematica, di ogni passaggio jazzato, di ogni atmosfera suadente, prima che “The Buzzard” dia nuovamente più ritmo e velocità al groove stumentale della band americana, quasi a voler sottolineare il fatto che il peggio ora è alle spalle, che è possibile liberarsi dal Male, che si possono vincere anche sfide che sembravano impossibili. I Seven Planets hanno voluto, deliberatamente, terminare con una notta di ottimismo e di positività l’album, un segnale per sé stessi e per chiunque si trovi, ad un certo punto del suo percorso, in difficoltà.
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