Una spirale di rock psichedelico disseminata di groove, di distorsioni ed esplosioni abrasive e taglienti di garage-rock, mentre, nel frattempo, le pieghe misteriose dell’universo, invocate dalle sonorità space-rock, danno al nuovo disco della band francese un sapore mistico ed ancestrale ed una dimensione cinematografica.
Gli SLIFT, sin dal primo brano dell’album, si lanciano oltre quella che è la nostra realtà superficiale ed apparente: i meandri bui del cosmo non sono poi così diversi dal nostro lato più oscuro, criptico e sconosciuto. Ma il nostro compito è quello di carpirne la vera essenza, il seme che racchiude in sè la capacità di rinnovare e rigenerare la vita, attraverso il ciclo infinito delle stagioni, della materia e dell’energia che si trasformano l’una nell’altra, mentre le stelle bruciano, muoiono e poi rinascono.
Se “Ummon”, il brano omonimo al disco, spinge il suo sguardo vero tutto ciò che sta fuori e con cui interagiamo attraverso i nostri sensi, mentre la navicella spaziale del trio di Tolosa lascia la nostra atmosfera, “Hyperion” concentra la sua attenzione su tutto quello che sta dentro di noi e che chiamiamo inconscio o spirito. Ma in entrambi i casi le sonorità heavy e stoner, con le loro chitarre robuste e la voce grintosa che le accompagna, evocano le forze del caos, a cui si contrappongono quelle dell’ordine, richiamate dalle sonorità più limpide e regolari del progressive e del krautrock. Caos ed ordine trovano il loro punto d’equilibrio in quella che definiamo “vita”; allo stesso modo i diversi paesaggi emotivi dipinti dai sintetizzatori, le diverse dinamiche, le pause di riflessione e le improvvise accelerazioni fuzz, i muri del suono ed i momenti più lenti e tenebrosi, danno vita a qualcosa di completamente nuovo ed omogeneo, qualcosa che si attorciglia attorno alla nostra anima e raggiunge il suo apice più lucente e drammatico nella bellezza inquietante e nella coralità struggente di “Aurore Aux Confins”, brano nel quale il tempo si scioglie, il passato ed il futuro diventano indistinguibili ed entrambi capaci di influenzare e suggestionare il presente.
Il finale è affidato ad un rabbioso e feroce punk dalle unghie affilate e dalle fauci spalancate, “Lions, Tigers and Bears”, la cui energia, però, non è dispersa in maniera frenetica e casuale nell’ambiente circostante, ma viene fusa in un flusso di metallo incandescente, assieme ad assoli e riff doom metal e armonie prog-rock, un flusso inarrestabile che pare davvero forgiato nel ventre del Monte Fato.
Comments are closed.