“Go Down Records 2003 | 2020” è una bella ed interessante raccolta pubblicata dall’etichetta italiana: un po’ un modo per fare il punto della situazione, per ricordarci chi siamo, da dove siamo partiti, ma anche per capire in che modo affrontare il futuro, soprattutto alla luce di ciò che sta succedendo oggi e che ha messo in crisi tante certezze che credevamo di possedere; allo stesso tempo, però, tutto ciò ci ha consentito di focalizzarci su ciò che è maggiormente importante per noi, sulle nostre passioni, tra le quali, ovviamente, sia per quanto concerne la Go Down Records, che per il Parco Paranoico, rientra un certo modo di fare musica, più veritiero, più indipendente, più ricco di idee e contenuti.
L’inizio della compilation è affidato ai bolognesi “Alice Tambourine Lover” che mescolano suoni folk-blues con atmosfere più desertiche e suggestive, cercando di sviscerare, attraverso la melodia, quelle che sono le nostre emozioni più crepuscolari e nascoste. Gli “Ananda Mida”, con il recente “Cathodnatius”, viaggiano in compagnia delle forze più oscure e minacciose dell’universo, facendo leva sia su una matrice hard-rock classica che guarda agli anni Settanta, che su influenze stoner rock. I “Diplomatics”, invece, si muovono tra le periferie urbane ed i Ramones, scegliendo un approccio decisamente low-fi alla musica ed alla vita, che li porta a opporsi a tutto ciò che è fasullo, formale, social, mentre un nome storico dell’underground tricolore, “Dome La Murte”, con i “Diggers”, riempie di sfumature punkeggianti, grezze e polverose le sue sonorità garage rock di riferimento.
Gli anni Settanta più sabbathiani tornano nel miscuglio di desert rock e blues primordiale dei “Fatso Jetson”, arrivando a lambire le sponde del grunge; nel frattempo le atmosfere strumentali de “Glincolti” disegnano le loro trame progressive rock, facendosi ispirare dallo spazio immenso e misterioso che ci sovrasta e dal mondo delle colonne sonore. Gli “Humulus” caricano l’aria di groove, avvolgendo gli ascoltatori con i loro riff e le vibrazioni positive del loro sound; successivamente, invece, sarà l’inossidabile background metallico dei “Karma To Burn” a prendere la scena con le sue solide e corpose cavalcate elettriche.
Non solo il sapore ruggente degli anni Settanta, ma anche quello del surf rock spensierato degli anni Sessanta, quello dei “Link Protrudi And The Jaymen”; il medesimo passato che, scegliendo un approccio più tenebroso, i “Mother Island” trasformano in una serie di paesaggi notturni e psichedelici, il cui obiettivo è sintonizzarsi con la nostra anima inquieta e permetterle di aprirsi al mondo circostante, anche attraverso le divagazioni ipnotiche degli “OJM”.
Gli “Small Jackets” rovistano, invece, con i loro repentini cambi di ritmo, nel cuore più puro e primordiale dell’America, dal blues al rock ’n roll, così come fanno anche le dinamiche serrate dei consanguinei “The Lu Silver String Band”, i quali danno inizio ad una colata lavica che attraversa il punk romantico e dolente dei “The Morlocks” e il rock più cupo e drammatico dei “The Sade”. Alle leggende del rock acido e psichedelico, i “Vibravoid”, è affidato il compito di trasformare la tensione accumulata in esplosioni di vivido colore che sconvolgono i nostri stessi sensi, per poi sconfinare nelle esplosioni punk-stoner dei “Vic Du Monte’s Persona Non Grata”, mentre Lei, incurante dei morti che le camminano attorno, accende l’ennesima sigaretta hard-rock che le offrono i “Virtual Time”.
Le sonorità mistiche e vibranti del rock del deserto, quelle che stanno a cuore a Brant Bjork, ritornano con gli “Yawning Man”, con il loro furgone carico di jazz ed hard-rock, punk e psichedelia, che percorre, senza paura, la valle della morte e ci riporta nei sobborghi metropolitani nei quali i “Beesus” e gli “Elepharmers” plasmano la loro musica fatta di grunge, dissonanze stoner, blues cosmico, ritrovate alchimie sabbathiane e riverberi dei Jane’s Addiction. La vita è perenne trasformazione, la materia è instabile ed ogni cosa contiene, al suo interno, il suo esatto contrario; l’hard rock roccioso dei “Gunash” non teme di affrontare gli aspetti più negativi e maligni della realtà, sui quali si abbatte il possente e massiccio muro metallico dei “Jahbulong”.
Ai “Lincantropy” e ai “Mad Dogs” il compito di riportarci verso la semplicità, la freschezza e l’immediatezza del punk e del garage rock, donandoci le zanne, gli artigli e l’energia necessari ad affrontare tutti i demoni che, quotidianamente, ci perseguitano, impedendoci di essere davvero noi stessi, di essere liberi e prendere il controllo delle nostre vite, proprio come intende fare Enrique Dominquez, il protagonista della magica storia narrata dai “Maya Mountains”, che si muove tra le ombre minacciose di un incubo e quelle sonorità avvolgenti che ritroviamo anche nei grandi spazi e nelle divagazioni stoner dei “Pater Nembrot”; intanto siamo giunti al finale della compilation, affidato ai riff genuini, taglienti e sudati dei “The Roozalepres” ed al loro riuscito mix di onestà, punk, verità e rock ‘n roll.
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