Prendete la realtà, destrutturatela, riducetela nelle sue parti elementari, mettetene in evidenza le sue nudità atomiche; iniziate, quindi, a riassembrarla, depurandola da tutto ciò che è solo superficialità e fate in modo che possano emergere le sensazioni più pure, crude e veritiere dell’animo umano, sia quelle che fanno parte del suo lato solare e costruttivo, che quelle legate, invece, al suo lato lunare e distruttivo.
Non abbiate paura del caos, non abbiate paura dell’aggressività, dell’impulsività o della rabbia; trasformatele in un flusso di sonorità elettriche ed industriali, di chitarre distorte, di noise-rock, di passaggi torbidi, densi e cinematografici, di effetti artificiali generati dal ventre elettronico dei sintetizzatori, in un misto di passato e futuro, di gioia e dolore, di inferno e paradiso, di centro e periferia, di anima e corpo. Ciò che otterrete è “Buried Steel”, un disco che abbraccia ritmi dance, tradizioni orientali e moderno minimalismo urbano; dentro troverete l’acciaio delle fabbriche e l’impercettibile essenza dei nostri spiriti inquieti e sognanti, perennemente in bilico tra salvezza e dannazione, desiderosi di conoscere, ma impauriti da tutto ciò che non riescono a spiegare, comprendere e prevedere.
I Khost sono una fornace ardente, sciolgono le consolidate strutture del rock e danno loro una nuova consistenza, reinterpretata in base alle loro sensibilità ed alle loro esperienze, in modo da intrecciare l’aspetto più onirico della musica elettronica e quello più meccanico, robotico e tecnologico, trasformando il grigiore dello smog in vividi impulsi luminosi, il battere incessante del ferro in un cuore pulsante, l’elettricità in pensieri, percezioni, vita. Una vita con cui gli ascoltatori, nonostante i toni apparentemente minacciosi, spigolosi, criptici e disordinati, tenteranno di relazionarsi, di stabilire un dialogo. Ci riusciranno? O resteranno intrappolati nella loro paludosa diffidenza? In fondo, è sempre stato questo il vero problema: andare oltre quelle che sono le evidenti diversità, in maniera tale da trovare un terreno comune su cui confrontarsi e comunicare, facendo sì, come accade in “A Non Temporal Crawlspace”, che le nubi oscure si diradino e che il nostro orizzonte riesca, finalmente, ad abbracciare tanto le linee armoniche d’una chitarra acustica, quanto le imprevedibili e decise distorsioni di questa creatura di rumore e passione.
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