C’è un’energia oscura e dannata nelle sonorità noise e post-grunge di “Songs For The Young”, ombre che s’allungano minacciose sulla strada solitaria e sconnessa di questi re in giallo, in attesa che giunga, finalmente, la notte e che le stelle nere di Robert W. Chambers possano risorgere e riprendersi il posto che le spetta di diritto nel cielo inquietante di Carcosa.
Un luogo estraniante, lontano, bizzarro, sconosciuto, ma, allo stesso tempo, insito nelle profondità delle nostre menti, laddove le dolenti trame di chitarra e basso riescono, con naturalezza disarmante, ad entrare in sintonia con quelle che sono lacrime mai versate; con tutte le immagini scolpite nel nostro remoto passato; con le mute canzoni del nostro spirito, perennemente in bilico tra sogno, incubo e realtà; mentre, nel frattempo, la drum machine impone le sue ritmiche robuste e decise, tentando di riportare in superficie il lato più fragile, ma più umano e veritiero, delle nostre personalità.
Questo portale artificiale e meccanico ci conduce dritti all’altra sponda del fiume: è qui che il duo italiano mette a nudo tutto l’orrore subdolo, servile e silenzioso che pervade l’asfissiante cupola di formalità, di apparenze e di luoghi comuni, sotto la quale ci hanno rinchiuso, facendoci credere di esserci rifugiati, e che oggi chiamiamo “normalità”. Una normalità che ha il sapore di una prigione; che spegne ogni istinto, ogni passione, ogni impulso creativo e che ci rende tutti perfettamente identici e prevedibili, giovani e meno giovani, mentre “Fucked Up” tenta di risvegliare le nostre coscienze ormai spente, abbattendo gli omologanti ed oppressivi muri di gomma che ci impediscono di essere noi stessi. Gli Yellow Kings plasmano il rumore del corpo e del mondo circostante, lo destrutturano e lo ricompongono, rendendo vive, attuali e pulsanti le glaciali sonorità post-punk di “Jugoslavia”, il fuoco livoroso e maligno di “Junkfuck”, l’accattivante frenesia di “Billy Morgan”; eccole le canzoni che le Hyades cantano ogni notte e che ci spronano a distruggere in mille e più pezzi di vetro le limitanti e maledette cupole che ci rendono pesante persino respirare.
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