Alcuni suoni, alcune immagini, alcuni volti, alcune sensazioni, prendono vita dentro di noi, in maniera spontanea, quasi a voler evidenziare il bisogno naturale di qualcosa di importante a cui aggrapparsi, qualcosa che vada oltre la routine, gli impegni, gli appuntamenti, i riti, che contraddistinguono le nostre vite. Spesso questa bellezza, pura e vulnerabile, resta vincolata nella sfera introspettiva del nostro piccolo mondo, delle nostre relazioni più intime, della nostra individualità; è difficile esteriorizzarla e renderla condivisa. Gli ingranaggi, le dinamiche e i meccanismi del nostro mondo rischierebbero di farla a pezzi, di banalizzarne il messaggio, di stritolarla nel flusso interminabile di dati che viaggiano lungo la rete globale che, a volte, abbruttisce ed avvelena la nostra realtà.
La musica, in fondo, è il modo più efficace e potente per amplificare e trasmettere questa bellezza agli altri, per mettere chiunque ascolti questo pugno di canzoni dinanzi ad uno specchio interiore capace di mostrare tutto ciò che, nel bene e nel male, c’è oltre quella corazza di superficialità, di apparenza, d’omologazione, di perfezionismo, di quieto vivere, che riveste le nostre esistenze. Gli ultimi mesi, l’isolamento, la pandemia, le strade silenziose, la solitudine, lo stringersi attorno al proprio nucleo essenziale di affetti e legami personali, il rallentamento del tempo, il rimpicciolirsi degli spazi, hanno, probabilmente, messo in evidenza lati della nostra personalità che pensavamo di non possedere o di aver messo a tacere per sempre, nel nome di una brama di successo e di affermazione che crediamo sia l’obiettivo finale delle nostre vite. Ed invece ci siamo scoperti più soli, più impauriti, più fragili, più nostalgici, più tristi, più bisognosi di una parola, di un abbraccio, di una canzone, di un sostegno, di uno specchio che potesse fornirci un’alternativa concreta ed appagante, un appiglio intorno al quale poter costruire qualcosa di stabile, di vero, di bello e duraturo.
Siamo lontani dalle atmosfere soniche e rumorose dei Marlene Kuntz, il disco di Cristiano Godano è più intimista, diretto ed immediato, sfrutta la sua semplicità formale per veicolare il proprio messaggio, per toccare l’animo dei propri ascoltatori, per metterli a proprio agio, tessendo trame sonore che guardano al folk e al country, mentre la morbidezza della voce e le linee ipnotiche della chitarra danno vita al grembo umido, recettivo e malinconico nel quale poter avvolgere la verità e la bellezza, l’onestà e la cruda drammaticità della poesia, quella che scava nelle zone più torbide delle nostre coscienze, senza fingere di non vedere i mostri e le bestie che ci portiamo dentro. Un lato oscuro che, ovviamente, finisce per influenzare il nostro essere amici, essere compagni, esser amanti, essere genitori, essere figli, esser uomini e donne e da cui è impossibile prescindere se vogliamo davvero dare inizio a quel processo di auto-critica, di ricostruzione, di ricerca che può e deve renderci più consapevoli, più liberi, più forti, più veri. “Mi Ero Perso Il Cuore” nasce come qualcosa di intimo e personale, di limitato alle proprie fragilità e debolezze umane, ma che, parola dopo parola, emozione dopo emozione, nota dopo nota, si trasforma in una complice folata di vento che diffonde il suo seme virale di incantata bellezza da una coscienza all’altra, da una mente all’altra, da un cuore all’altro, donando a questo lavoro anche un aspetto più politico e sociale.
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