Il nuovo album della band danese, “Szabodelico”, è fatto di paesaggi e di panorami eterogenei che lo rendono assolutamente eclettico, bizzarro ed accattivante. Allo stesso tempo, però, il frutto di queste differenti trame/pennellate sonore è un quadro d’insieme unico ed elaborato, che riesce a tenere assieme l’ariosità eterea del free jazz e le loro classiche e calorose sonorità psichedeliche, spostandosi, con sapiente naturalezza, dalla dimensione strumentale della musica per film, intrisa di elementi funk e western, a quella vibrante ed incisiva del progressive-rock più acido e furente.
Il filo conduttore è il jazzista ungherese Gabor Szabo, la sua straordinaria capacità nel superare gli schemi di genere, nel rifiutare le inutili restrizioni culturali imposte da quelli che sono solo modelli e schemi aridi e prevedibili, dando vita ad uno spumeggiante ibrido a base di rock e jazz, con innumerevoli elementi provenienti dalla musica più antica e popolare, in particolare dal folk tradizionale gitano. A tutto ciò i Causa Sui hanno aggiunto le loro ampie e riflessive sonorità cosmiche, il loro amore per gli spazi inesplorati, il sapore retrò delle colonne sonore italiane degli anni Settanta, nonché frammenti di matrice krautrock e desert rock, creando un groove unico, capace di accompagnare l’ascoltatore durante tutti e tredici i brani che compongono il disco, esaltandone ogni momento, sia esso un momento di pace e leggerezza, che uno di inquietudine e malinconia.
Il tempo stesso si scioglie, diventa un ulteriore elemento fluido; un elemento in grado di unire le persone, piuttosto che allontanarle e tenerle distanti, tant’è vero che possiamo sentire, fisicamente e spiritualmente, attraverso le onde sonore, la presenza di Gabor, nonostante egli non sia più tra noi. Possiamo percepire le sue mani, possiamo assaporare il profumo inebriante delle sue melodie, così come sentiamo il tocco caldo del sole sulla nostra pelle, mentre le nuvole basse che ci impedivano di ammirare la profondità dell’orizzonte si diradano e fuggono via, ormai impotenti dinanzi alle ritmiche serrate di Jakob Skøtt e le divagazioni sciamaniche di Jonas Munk, che si uniscono in un unico sublime respiro.
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