Dopo 15 anni, i System Of A Down pubblicano due nuovi brani per sensibilizzare l’opinione pubblica mondiale sul conflitto del Nagorno-Karabakh, terra che gli Armeni chiamano Artsakh, e che ancora una volta, come nell’88, viene sconvolta dalla guerra. Che, ancora una volta, debbano essere i missili e le bombe a grappolo a far risuonare la propria voce è l’ennesima sconfitta della politica mondiale e la prova concreta di come le democrazie occidentali, in realtà, si muovano, con ardore ed impegno, solo quando debbono difendere i propri interessi economici, piuttosto che la pace, la vita e la serenità delle persone comuni.
Usiamo la storia solamente quando ci fa comodo, è questa la triste verità; ma la storia ed il passato sono la nostra memoria comune, non si schierano per l’una o l’altra parte; non sostengono questa o quella fazione; non difendono l’equilibrio geopolitico vigente, né tentano di sovvertirlo per i loro scopi.
Esistono ferite aperte che non abbiamo né la voglia, né il coraggio di affrontare e la questione armena, ovvero ciò che è accaduto in quello che un tempo era l’impero Ottomano, tra il 1915 ed il 1916 – la cui eco si può avvertire ancora oggi a distanza di un secolo – fa, senza alcun dubbio, parte di quelle ferite che continuano a lacerare e far sanguinare la Terra.
In fondo, perché dovremmo preoccuparci di un territorio nel quale non ci sono né petrolio, né metalli rari, né altre ricchezze da poter controllare e sfruttare a proprio piacimento? Perché infastire nazioni potenti con le quali, invece, potremmo intrattenere più utili e remunerativi rapporti d’affari, come la Russia di Putin e la Turchia di Erdogan? Di guerre, più o meno ignorate, più o meno silenziose, più o meno striscianti, nel mondo, ce ne sono tante; che vuoi che importi qualche drone in più? Che vuoi che importi qualche foresta data alle fiamme in più? Che vuoi che importi un ospedale o un luogo di culto in più che viene distrutto? Che vuoi che importi se gli Armeni vivono in quelle terre da millenni e le considerano la propria casa? Perché impegnarsi per un cessate il fuoco immediato, giusto, umano e duraturo, rischiando di restare impantanati in una guerra così sporca, così scomoda e così antica?
Nessuno ha voglia di farlo, soprattutto quando la crisi sanitaria, sociale ed economica è così drammatica. Che facciano quello che gli pare, che i più forti diano una lezione ai più deboli, che i più ricchi umilino i più poveri. In fondo, quella non è la nostra patria ancestrale; non sono puntate contro di noi quelle pistole; non cadono sulle nostre teste quelle bombe; ed una posizione netta sarebbe controproducente, meglio essere cinici, meglio fingere di non sapere troppo, meglio nascondersi dietro le solite formule buoniste ed i soliti luoghi comuni, lasciando, nel frattempo, che il destino faccia il suo corso. Da queste considerazioni, intrise di tristezza e di dolore, ma anche dalla ferrea volontà di difendere il proprio popolo e denunciare le ingiustizie, le violenze ed i soprusi subiti, nasce “Protect The Land”, un grido di disperazione e d’aiuto, ma anche l’invito a non essere complici della guerra, a non pensare di essere estranei alla morte ed al dolore solo perché non ci riguardano in prima persona. Nessuna persona, ovunque viva, qualsiasi sia il suo credo religioso, il colore della sua pelle, le sue tradizioni e la sua cultura, può essere abbandonata a sé stessa, accettando, supinamente, l’idea che possa morire sotto un bombardamento, a causa di un cecchino, di un attentato terroristico, di una purga, di un pogrom o perché tenta di portare in salvo sé stesso ed i suoi cari.
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