Nel nome d’un uomo che non s’arrende, è così che inizia il nuovo concept album dei Deadburger Factory, nel nome di qualcosa che, oggi, in un’epoca nella quale siamo abituati a costruire e distruggere i nostri miti ed eroi virtuali in un batter di ciglia, assume il sapore di una folle e mistica sacralità. Ma, allo stesso tempo, si tratta di qualcosa di estraniante, impopolare e profondamente fuori posto, proprio come il povero, fragile e sprovveduto druido che si ritrova imprigionato in un centro commerciale.
Ma perché l’eroe deve, necessariamente, essere una figura forte? Perché non può essere l’Orlando ariostesco il cui senno si è perduto sulla Luna? La risposta è semplice: perchè noi viviamo in una società che impone, in maniera subdola, schemi e modelli di pensiero e di comportamento che disprezzano gli assalti al cielo e che rabbrividiscono dinanzi a chiunque appaia imprevedibile, borderline, critico, diverso e soprattutto del tutto indifferente alle esortazioni ed agli inviti di quella voce che rimbomba tra i negozi del centro commerciale, ma anche nella nostra testa, nella nostra quotidianità, spingendoci tutti nella medesima e prevedibile direzione, quella che ci vuole ottimi consumatori dalle coscienze sopite.
“La Chiamata” è una finestra spalancata sulla nostra cruda realtà, una colonna sonora illustrata il cui obiettivo è aprire il vaso di Pandora nel quale nascondiamo tutti i bocconi amari che siamo costretti ad ingoiare per tirare avanti, a volte per semplice e banale convenienza e tornaconto personale, a volte per timore di essere considerati strani e di conseguenza marginalizzati, mentre, intanto, le diseguaglianze e le ingiustizie del sistema neoliberista, che ormai controlla le politiche sociali ed economiche delle singole nazioni, si fanno sempre più enormi; mentre la loro risposta, a qualsiasi tentativo di sovvertirne le leggi ed i regolamenti, diventa sempre più crudele e violenta.
Le sonorità dell’album, di conseguenza, si fanno di pari passo più cattive e disilluse, abbondano di chitarre taglienti, di parole affilate, di sax che vorrebbero gridare la nostra voglia di fuggire da questo eterno e vuoto presente, mentre la sezione ritmica scava, sempre più in profondità, nel torbido che, spesso, fingiamo di non vedere, nel niente in cui annegano le nostre giornate, tra incursioni jazzistiche, ambientazioni psichedeliche, trame che scorrono fluide verso il blu quasi trasparente del cielo che ci fissa sbalordito e silenzioso; il blu quasi trasparente del tempo che ci viene brutalmente portato via; il blu quasi trasparente di tutto l’amore a cui rinunciamo nel nome di un progresso disumano che svuota le nostre anime, riempendole di inutili diavolerie tecnologiche e di derive fasciste, le quali, nascoste dietro le loro maschere falsamente sorridenti, i bei discorsi del politically-correct e le vacanze al mare, vogliono renderci più insicuri e cattivi, più soli ed arrabbiati contro chiunque si trovi oltre la soglia dei nostri comodi, velenosi ed alienanti salotti.
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