“The Black Mark” è un piccolo gioiello oscuro, perfettamente a suo agio in questi tempi strani che stiamo vivendo, tempi dominati dal panico, dall’ipocrisia e da una spaventosa mole di informazioni, molte delle quali sono false, inutili, parziali e servono solamente a distrarre, impaurire ulteriormente e disorientare le masse, in modo da allontanarle da quelle che sono le vere cause di questa crisi globale che ci sta letteralmente uccidendo.
Abbiamo realizzato un modello sociale, politico ed economico di sviluppo, o meglio di sotto-sviluppo, basato essenzialmete sul disinteresse dei più ricchi – una minoranza – nei confronti dei più poveri – la stragrande maggioranza della popolazione mondiale – ed ora stiamo pagando a caro prezzo quelle che sono state le nostre scelte passate. Il disfacimento di questo modello neo-capitalista e post-industriale è un processo oramai avviato, a nulla servirà il terrorismo mediatico di questi ultimi mesi, l’uomo è caduto, la sua carne si è dimostrata, ancora una volta, estremamente debole ed ogni cosa è destinata a tornare nel grembo freddo, accogliente ed oscuro della terra madre; quel grembo al quale le sonorità cupe ed elettroniche, di matrice ambient ed industrial del progetto 5RVLN5 riescono a dare l’adeguata, corposa e penetrante trasposizione musicale.
“Fallen Angel” sembra quasi affogare nel caos brutale della fine, nella sua irrazionalità, nel suo voler trovare a tutti i costi nuovi nemici ai quali dare la colpa dei propri fallimenti, mentre “Flesh” ci rammenta, con il suo incedere metallico, quanto sia stato arrogante, ottuso e superbo il nostro modo di vivere, di relazionarci con i nostri simili e soprattutto di interagire con il pianeta che ci ospita e sostiene, depredando e sprecando le sue ricchezze. Le atmosfere sonore sono destinate, di conseguenza, a diventare sempre più taglienti, notturne, essenziali e violente: “The Coward And The Word” è un inno sintetico morboso e struggente; “World Of Filth” rappresenta il momento della definita caduta dell’uomo moderno da quel piedistallo artificiale che egli stesso aveva eretto, credendo che la sua tecnologia ed il suo progresso gli consentissero di poter controllare persino la vita e la morte, prima di ritrovarsi, in quest’ultimo anno, solo, nudo, fragile ed impaurito, proprio come si sentivano i suoo antichi antenati dinanzi all’immensità misteriosa di cielo stellato, alla forza dirompente di un mare in tempesta o alla improvvisa oscurità provocata da una eclissi di sole.
Tutto questo dolore e tutta questa impotenza sono il soffio vitale da cui emerge la vibrante “Funeral Song”, un ultimo atto intriso di suoni feroci, torbidi e sinistri, intriso dell’anima stessa di Chuck Clybourne, che ha ormai strappato via qualsiasi maschera, ha aperto qualsiasi scrigno segreto, ha sollevato qualsiasi sudario, mostrandoci la realtà per ciò che è, in tutta la sua dolorosa follia; ciò, ovviamente, ci fa piombare ancor di più nell’angoscia e nello sconforto, ma è l’unica strada possibile di cui disponiamo per tentare di risollevarci. Dunque dipende solamente da noi che cosa vogliamo vedere alla fine del tunnel, che senso vogliamo dare a questi brani, sia nella loro versione più cruda e naturale, che nelle suadenti ed ipnotiche rielaborazioni pubblicate successivamente come singoli: riusciremo a percepire l’inizio che segue ogni fine?
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