Esiste un luogo trasversale nel quale il punk e la psichedelia controllano l’alternarsi delle stagioni, il moto delle maree, le fasi lunari e tutto ciò che, solitamente, resta nascosto, in silenzio, dentro di noi, ma non qui, ovviamente; in questo luogo ogni cosa viene sospinta immediatamente verso l’esterno dalle ritmiche punkeggianti di “House On Fire”, il brano iniziale dell’album. Ritmiche brillanti e malinconiche, proprio come appare il passato quando siamo immersi in un presente costituito soprattutto da resti e macerie. Tutto ciò che rimane di un mondo che è stato fatto letteralmente a pezzi da un modello di felicità che non può esistere, che era ed è solamente un’illusione effimera creata ad hoc per nascondere speculazioni finanziarie, promesse che nessuno avrebbe mai mantenuto e debiti che nessuno avrebbe mai, davvero, saldato.
Felicità virtuale per una realtà virtuale, ma è stato sufficiente un minuscolo ed invisibile nemico a far emergere la brutale e drammatica verità e mostrare quanto il modello adottato fosse iniquo, innaturale e disumano.
Tutto ciò, ovviamente, adesso ci spiazza e ci disorienta, solo il punk rock, riesce a darci la scossa necessaria, a scuoterci e a permetterci di riaprire gli occhi che tenevamo chiusi, un po’ per comodità, un po’ per opportunismo ed un po’ per paura. La risposta, però, non può essere solamente un’esplosione momentanea ed elettrica di rabbia; la rabbia va trasformata in qualcosa di concreto, appagante e duraturo; ecco, dunque, le sonorità più lisergiche e psichedeliche farsi strada e rioccupare quegli spazi lasciati vuoti dall’inesorabile caduta del mito di felicità fasulla che, invano, tentavamo di raggiungere.
Le trame sonore rarefatte e dolenti hanno il compito di cercare una direzione, di ritrovare l’equilibrio tra la sfera razionale e quella emotiva, senza nascondere l’urgenza e la frenesia di un mondo primordiale e selvaggio fatto di garage rock, di distorsioni e feedfack, di suoni sporchi e spigolosi, di vecchi dischi di Iggy Pop, di rumore analogico, di vetri rotti, di poesie di Patti Smith e nottate insonni, mentre, nel frattempo, i passaggi più diluiti e rallentati destrutturano la realtà e ci consentono di mettere a fuoco quelli che sono i veri colpevoli ed i veri aguzzini, compresi i mostri che vivono dentro di noi e che si rafforzano nutrendosi delle paure infondate, delle insicurezze, delle ansie e di tutta la dannata merda che il modello, perfetto e vincente, di società 2.0 tenta, a tutti i costi, di farci ingoiare.
Ma è giunto il momento di un vero e proprio reset, è giunto il momento di riprendere fiato; la seconda parte del disco suona come un invito a riflettere e riprendere il possesso, attivo e costruttivo, degli spazi mentali ed intellettivi che avevamo lasciato in balia del demone a tre teste – quella mediatica, quella politica e quella economica – che aveva ipotecato e svenduto il nostro stesso futuro e quello dei nostri figli. Stony Sugarskull è una creatura irrequieta, feroce, viscerale, ma anche consapevole di dover, necessariamente, mediare i propri slanci più aggressivi ed irrazionali, trasformandoli in brani più lirici e meditativi, nel ponte che possa mettere in comunicazione il passato ed il futuro, il cuore e la ragione, il buio e la luce, lo spirito e la materia, in modo da poter vivere in armonia con noi stessi, gli altri ed il mondo circostante.
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