Una macchina del tempo che utilizza blues ed hard rock come fonti primarie di alimentazione, sapientemente miscelate e mantenute in tensione da Lisa Lystram, con le sue divagazioni vocali controllate, vibranti e potenti, oltre che dai riff malinconici e magmatici di Matte Gustavsson. Il tutto alla luce di un passato che, come spesso avviene in questi casi, soprattutto quando il nostro presente è così torbido, ottuso e tremebondo, assume i contorni di un’era magica, radiosa e promettente, una vera e propria montagna di zucchero, oltre la quale c’è il luogo fantastico in cui tutto è come dovrebbe essere: il tuo tempo lo controlli solamente tu, il futuro è radioso ed il mondo è governato da politici e governi che mettono, al primo posto, il bene della collettività.
Chissà se ai tempi dei Blue Pills, la Terra appariva davvero un luogo così facile ed ameno; sinceramente ne dubito. In fondo noi siamo sempre portati a caricare il passato delle nostre aspettative future, rendendolo migliore di quello che esso, effettivamente, è stato, ma è innegabile che le sonorità pure e selvagge degli anni Settanta – il groove blueseggiante di quelle trame passionali ed analogiche – rappresentano qualcosa di assolutamente affascinante; qualcosa che, ancora oggi, riesce a trasmettere fiducia, sicurezza ed energia positiva negli ascoltatori, soprattutto se c’è la volontà – cosa che, attualmente, manca – di mettersi in gioco, di non temere i giudizi altrui e di mostrarsi agli altri, piuttosto che nascondere la propria personalità e seguire, pedissequamente, percorsi emotivi, politici, sociali che sono già stati tracciati e che, sempre più spesso, accettiamo per quieto vivere, nascondendoci all’ombra di utili e comodi compromessi.
Questo carisma non puoi crearlo a tuo piacimento, o lo possiedi oppure no. Gli Heavy Feather ne sono consapevoli, probabilmente disegnano panorami sonori che abbiamo già assaporato, ma lo fanno con grande emotività, coinvolgimento e convinzione, riuscendo a trovare spunti, sentieri, narrazioni, persino bettole in cui bere una bottiglia di whiskey, che non avevamo ancora esplorato. Il deserto, tutto sommato, è immenso ed altrettanto sconfinate sono le praterie, le foreste e le montagne, di conseguenza di storie da narrare ce ne sono ancora parecchie, ben oltre gli undici brani di questo disco. Basta lasciarsi trasportare dalle melodie nostalgiche e sfuggenti di “Let It Shine”, dalle atmosfere impregnate di indomito spirito southern di “Sometimes I Feel”, dalle vibrazioni zeppelliniane di “Too Many Times”, dalle ombre serali che prendono corpo in “Asking In Need”, da quell’ultimo infuocato tramonto.
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