Abbiamo fallito, il modello di economia che abbiamo adottato – fondato soprattutto sull’avidità, sulla frenesia e sull’egoismo più bieco ed ottuso – si è rivelato essere una minaccia per gli stessi esseri umani, i quali, costretti a entrare in una catena globale di approvvigionamento, di produzione e di consumo, che non ha alcun rispetto per la Terra, per i suoi ritmi ed i suoi cicli, vengono risucchiati da un nuovo, minaccioso e spietato eco-sistema. Un eco-sistema che fa delle illusioni artificiali i propri bisogni primari e nel nome di quei bisogni è pronto a calpestare qualsiasi diritto, qualsiasi forma di solidarietà, qualsiasi idea di legalità o di giustizia, oltre che alterare e sconvolgere la natura e le sue stagioni, iniettando nel pianeta ogni genere di veleno, affogandolo nell’inquinamento e nelle plastiche, provocando mutazioni ed estinzioni, favorendo le condizioni ambientali e sociali nelle quali nuovi invisibili nemici mordono l’egoistica mano dell’uomo che li ha generati.
“The Bones Of Earth” (in uscita il 16 Aprile) ha il suono oscuro dell’urgenza, perché – ci piaccia o no – siamo giunti dinanzi ad un baratro e potremo salvarci solo se ci fideremo l’uno dell’altro. Quante volte, infatti, abbiamo ascoltato slogan del tipo “America First”? Certo, la strada dell’ognuno per sé potrebbe apparire la strada più facile da percorrere, ma, sul lungo periodo, nessun individuo, nessuna casta, nessuna lobby, nessun gruppo, nessuna nazione, per quanto ricca e potente, può avere la forza necessaria per vincere un nemico che, oramai, è globale e che ha dimostrato una capacità di cambiamento, di mutazione e di adattamento straordinari.
Il futuro, dipinto dalle sonorità psych-folk, introspettive e dispotiche della band cesenate appare, di conseguenza, torbido e precario; queste forze disumane sembrano prendere il controllo delle nostre vite e della nostra quotidianità, la quale è, sempre più, più disgregata, lacerata e divisa. Divisioni da cui emergono, continuamente, nuovi mostri e nuovi fantasmi, in un miscuglio di dolorose esperienze passate ed ansie e trepidazioni future, un miscuglio che amplifica la nostra aggressività, la nostra rabbia, la nostra violenza, mettendoci contro, trasformando il prossimo in un potenziale nemico da combattere e riducendo, alla fine, la così detta civiltà in un mucchio di detriti abbandonati, di macerie fumanti, di rovine e di testimonianze di un’antica grandezza, ma soprattutto di ossa rotte, corrose e consumate.
Ed i Suez danno corpo musicale a questo sudario, al rumore di queste ossa che sbattono tra loro, alla voce delle loro storie che si perdono in un vento tossico e maligno, perché, purtroppo, questo è l’unico scenario possibile quando le persone rinunciano alla speranza ed accettano una cultura fondata sulla sofferenza e sulla morte. La cultura dei migranti emarginati e sfruttati; quella dei rifugiati divisi da muri di cemento e di filo spinato; quella dei ricchi che guardano con ostilità e disprezzo i più poveri; quella di guerre assurde, combattute nel nome dell’odio e dell’intolleranza; quella di un invisibile filo di odio e risentimento che unisce Aversa, in Campania, con Kobane, passando per Minneapolis e la striscia di Gaza, per le rotte balcaniche e le sponde del Savio, in un susseguirsi di scatti ed immagini sonore, di divagazioni di matrice post-rock, mentre i riverberi epici, immortalati da “We Are The Universe”, le intuizioni cinematiche di “Humanity Is Dead”, il cupo eroismo di “Kobane” o le sofferte ambientazioni folkeggianti della title-track, ci accompagnano in un viaggio intimo e introspettivo nei nostri sentimenti e nelle nostre emozioni, spronandoci a tendere la mano all’altro, ad uscire da quel comodo nascondiglio, dietro il confortevole schermo luminoso dei nostri pc, tablet e smartphone: l’ultimo inutile baluardo di un mondo che sta morendo.
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