Eventi musicali cancellati, tour annullati o rinviati, locali costretti a chiudere i battenti, l’intero eco-sistema musicale in apnea forzata per mesi, nella vana attesa che la politica potesse fornire i necessari sostegni oppure, più realisticamente, che un vaccino e la successiva adozione di modelli sociali ed economici alternativi consentissero alla vita di riprendere il proprio naturale cammino. In verità le diverse politiche nazionali hanno risposto alla crisi sanitaria globale in maniera differente, dimostrando una sensibilità, una lungimiranza e una preparazione molto diverse tra loro; purtroppo, analizzando la marginale situazione italiana, è evidente che i due governi che hanno affrontato la pandemia, quello precedente e quello attuale, entrambi caratterizzati dalla medesima deleteria e soporifera gestione del ministero dei beni culturali, hanno preferito semplicemente chiudere – spesso in maniera inutile ed irrazionale – senza garantire, contemporaneamente, gli adeguati “ristori” dei quali il settore avrebbe avuto bisogno.
Adesso che la ripartenza pare essere più vicina, nuove nubi e nuove cassandre compaiono all’orizzonte: visto che ci saranno, sicuramente, delle limitazioni e delle restrizioni in termini di persone che potranno accedere agli spazi riservati agli spettacoli, in molti stanno già mettendo le mani avanti, sostenendo che sarà comunque impossibile organizzare e promuovere eventi medio-grandi, a meno che non si vadano a ritoccare verso l’alto i prezzi dei biglietti dei concerti; prezzi che, onestamente, già in fase pre-pandemica mi sembravano essere notevolmente elevati.
Dov’è il problema, dunque? Il problema, a mio giudizio, viene da lontano. Nel 1992, in un’epoca nella quale la rete muoveva i suoi primi passi, assistere, ad esempio, ad un concerto di Eric Clapton richiedeva più o meno una quindicina di dollari; oggi, invece, partiamo da almeno un centinaio di dollari. Certo, il costo della vita è aumentato, ma, in termini percentuali medi, i biglietti dei concerti hanno avuto un aumento decisamente maggiore. Ormai si è creata una vera e propria barriera economica che impedisce a coloro che hanno redditi più bassi di assistere a questi spettacoli dal vivo, soprattutto di accedere a quelli che sono venduti come i posti migliori.
Negli anni Novanta il grosso delle entrate delle band e degli artisti veniva, soprattutto, dalle vendite dei propri dischi e solo il 30% proveniva dai tour. Col tempo, però, la diffusione della musica on line, la nascita e la crescita delle varie gigantesche ed affamate piattaforme di streaming ha ridotto, sempre più, quella fonte di ricavi connessa al supporto fisico, che è passata, in pratica, dai circa 10 milioni di dollari settimanali degli anni Novanta al milione e mezzo attuale.
Oggi, in pratica, si ritiene che, per una band, circa il 75% dei propri introiti provenga, in modo diretto o indiretto, dai tour; tour che, nel frattempo, debbono essere sempre più globali, complessi, visionari e spettacolari e quindi sempre più costosi da organizzare e promuovere.
L’unico modo, al momento, per abbassare il costo dei biglietti dei concerti, permettendo agli artisti e all’eco-sistema che essi sostengono di produrre reddito, è solamente uno: spingere le piattaforme di streaming a compensare adeguatamente gli stessi artisti; non c’è altra alternativa. Solamente qui il margine di manovra è più ampio; qui è dove una politica lungimirante, preparata e capace può intervenire; qui è dove il mondo della musica, nella sua interezza, dovrebbe far sentire, realmente, la propria coesione, non limitandosi solamente a parlare e poi agire ciascuno guardando solo il proprio giardino, per quanto esso possa essere ampio in termini di ascolti virtuali.
Ma non può essere, ovviamente, una questione che riguarda solamente gli artisti ed i politici, riguarda anche i consumatori / ascoltatori, i quali, ad esempio, potrebbero scegliere di favorire le compagnie e le piattaforme eticamente più giuste e corrette o magari potrebbero scegliere di sostenere gli artisti e le band che amano anche attraverso l’acquisto di un vero e proprio album, piuttosto che accontentarsi della sola inconsistente immagine virtuale riflessa in un mucchio di byte.
Comportamenti e scelte che non dipendono dalla pandemia, ma che non possono essere più rimandate se vogliamo davvero cambiare le cose; nel frattempo, però, è evidente che occorre avere una campagna di vaccinazione efficace e veloce; occorre abolire quelle norme, come il coprifuoco, che non hanno alcuna motivazione sanitaria, ma sono solo un deterrente psicologico degno delle peggiori dittature; occorre pensare a sgravi fiscali per quei locali piccoli e medi, i così detti club, nei quali, spesso, trascorriamo le nostre serate più belle ascoltando band semisconosciute; occorre investire negli spazi pubblici, nei teatri, nei parchi, in tutte quelle strutture che potrebbero essere sfruttate per organizzare eventi a costi minori; occorre trovare accordi e sponsorizzazioni con il settore privato per organizzare festival; occorre sottrarsi alle logiche monopoliste nella organizzazione, promozione e vendita dei concerti; occorre snellire tutta la parte burocratica, eliminare gli inutili balzelli, gli assurdi diritti, le speculazioni che affliggono organizzatori e consumatori; occorrono, in pratica, tutta una serie di scelte e di decisioni chiare – non stiamo scoprendo l’acqua calda – che questa classe politica, un po’ per incapacità, un po’ perché troppo invischiata con il passato, con schemi e meccanismi logori, non credo riuscirà mai davvero a prendere.
Non ci resta, dunque, che spezzare questi legami che ci impediscono di crescere e migliorare.
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