25 anni fa la stampa inglese gongolava, da un lato i ruvidi uomini del nord, espressione della working class mancuriana, dall’altro gli hipster universitari londinesi: gli Oasis contro i Blur. Nel ’95 entrambe le band erano reduci dal rispettivo primo album: “Parklife” e “Definitely Maybe”, due dischi d’impatto che contribuirono a risvegliare il pop inglese dal torpore nel quale era sprofondato. Uno dei punti mediaticamente più floridi vide il lancio di due singoli: “Country House” e “Roll With It”; col senno di poi potremmo affermare che la battaglia tra i due singoli vide prevalere i Blur e la guerra tra i rispettivi album gli Oasis, ma – questa, badate bene, è un’opinione del tutto personale – il tempo, alla fine, ha dato ragione alla band di Damon Albarn.
Oggi, passata la sbornia britpop degli anni Novanta, messe da parte le reciproche spavalderie, Liam e Damon non sono più così distanti ed a detta di Noel, al di là della redditizia faida da classifica, il tutto si poteva riassumere, semplicemente, col fatto che i due, essendo dei cantanti solisti, erano, in fin dei conti, due fottuti idioti. “They’re wired the wrong way round”, si sarebbero spinti oltre ogni limite solamente per un sorriso o un’acclamazione in più. Oggi, il derby inglese di Champions League, tra il Manchester City ed il Chelsea, sta riportando in auge l’antica contrapposizione tra il Nord operaio ed il Sud borghese, ma può avere ancora senso?
Onestamente no, non credo; sia il City che il Chelsea, ormai, sono espressione dello stesso potere finanziario che controlla il mondo e quegli anni Novanta, baluardo di un nuovo modello sociale, politico ed economico da contrapporre al dispotico e violento thatcherismo degli anni Ottanta, rappresentano un’epoca lontana, molto lontana. La musica, inoltre, è, di fatto, globale; l’Inghilterra, nonostante i fautori della brexit, non è più un mondo musicale a sé stante e quel contrasto tra bianco e nero, buono e cattivo, buio e luce, tra melodia pop ed eccentricità rock, a sua volta ereditato dai gloriosi anni Sessanta che vedevano contrapposti i Beatles ed i Rolling Stones, è solamente nostalgia per anni nei quali eravamo più ingenui o forse solo più giovani.
Oasis e Blur, ma anche Pulp, The Verve, Ash, Elastica, Suede, Supergrass, The Stone Roses, Garbage, Republica, mentre, nel frattempo, la musica iniziava ad essere sempre più liquida, vinili e musicassette soccombevano ai CD, internet muoveva i suoi primi passi, la tecnologia cresceva a dismisura ed il mondo sembrava potersene giovare, mentre, in realtà, nemici più pericolosi e più crudeli stavano sotterrando i semi da cui nuove violenze, nuovi conflitti, nuove ingiustizie, nuove assurdità sarebbero, da lì a poco, germogliate: non saremmo riusciti a sanare le vecchie e dolorose ferite, ma ne avremmo provocate, purtroppo, tante altre. Ed oggi, nel 2021, con un mondo sconvolto dal virus e da tutto ciò che abbiamo visto accadere dinanzi ai nostri occhi, in preda a paure che pensavamo fossero state sconfitte, quella battaglia glamour tra gli Oasis ed i Blur fa lo stesso effetto di una foto della nostra adolescenza, delle pagine di un vecchio diario, di una favola, di un poster o di un piacevole ricordo: il presente è tutta un’altra cosa, ma ascoltare queste canzoni, anche per chi non ha vissuto direttamente gli anni Novanta, è terapeutico, perché, in fondo, questo è il potere più grande della musica, quello di sottrarsi allo scorrere inevitabile del tempo, di attecchire da una generazione all’altra, ispirandoci a intraprendere nuovi percorsi, risvegliando in noi nuove energie, aprendo nuove visuali e spronandoci a tentare di essere, ogni giorno, migliori di quello precedente. Ed in questo hanno vinto entrambi, sia i Blur, che gli Oasis.
Comments are closed.