La rete, a volte, mette a disposizione piccoli tesori ed è, in effetti, ciò che è accaduto, grazie a La Tempesta Dischi che ha reso disponibile l’intero catalogo dei Red Worms’ Farm: sonorità grezze e viscerali perdute in quella terra di mezzo tra il grunge, il punk ed il noise-rock; una porta aperta su atmosfere, sonorità, politiche di autogestione diy che rappresentavano il meglio che il nuovo millennio aveva ereditato dagli anni Novanta, tra un’indomita ed ancora viva voglia di indipendenza ed un desiderio di non scendere in nessun modo a compromessi, espresso attraverso chitarre robuste, spigolose e distorte ed una batteria frenetica, claustrofobica ed incalzante, mentre la band si sintonizzava su quel filo indistruttibile che legava Padova all’America dei Fugazi e dei Sonic Youth.
Un suono che è rimasto puro, crudo, essenziale, capace di trasmettere ancora emozioni forti, di farti sbattere i piedi e prendere a pugni i muri di gomma che, nel frattempo, hanno reso sempre più ristretti gli spazi a nostra disposizione, chiudendoci in una serie di micro-mondi tutti perfettamente uguali ed omologati, nei quali ogni comportamento, ogni relazione, ogni espressione della nostra creatività, compresa la stessa musica, è ritenuta buona o cattiva, giusta o sbagliata, vincente o perdente, a seconda che essa sposi o no i modelli e gli schemi ritenuti “politicamente corretti”. Un vero e proprio meccanismo perverso di controllo globale che, ovviamente, ha difficoltà a metabolizzare una musica ed un modus vivendi concepiti come vibrante e rabbiosa affermazione del naturale desiderio di liberazione mentale, economica, politica, artistica e spirituale da quelle che vengono “suggerite” come le uniche possibili formule per sentirsi felici ed appagati.
Ma la felicità non può essere una sola. Queste formule sono sempre più artificiali, finte e precarie; sempre più disumane ed estranee a ciò che chiamiamo cultura, storia o tradizioni, ma sono interessate solamente agli aspetti più formali delle nostre esistenze, in un micidiale intreccio di effimeri ed irraggiungibili modelli di bellezza sintetica ed un bramoso ed insaziabile bisogno di centralità e di successo che annientano le nostre particolarità, le nostre specificità, le nostre singolarità, il nostro essere il cane, il gorilla, il serpente o qualsiasi altra cosa desideriamo essere, per trasformaci in automi identici, ossia il frutto violento di un morboso copia-incolla replicato su scala industriale.
In un mondo così non è prevista l’autodeterminazione, non è possibile sottrarre spazi al meccanismo di controllo dominante e, se proprio non si può fare a meno di questi luoghi, è meglio che siano il più confinati e marginalizzati possibili; in un mondo così non è possibile esprimersi semplicemente in base a quelle che sono le proprie idee e le proprie percezioni, non sono previsti favole e reami magici, nessuna Daydream Nation, nessun Troncomorto.
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