Questo disco degli Electric Haze irrompe nelle nostre vite come un vento caldo e piacevole, nonché generoso di narrazioni, di sonorità, di atmosfere che rimandano all’epoca più fortunata e spensierata dell’hard-rock, quella a cavallo tra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli anni Ottanta. Hard-rock, glam-rock, heavy-blues, con sfumature progressive-rock che contribuiscono ad affiancare un alone più magico e spirituale a quella che è la corposità dell’album; una corposità costituita da ritmiche grintose, riff che cercano l’equilibrio tra il lato più aggressivo e quello più radiofonico della band, mentre le voci rimangono, per lo più, lineari, melodiche e pulite.
Il punto più alto di questo lavoro del gruppo svedese resta “Cavern Of Pain”, un brano che riesce a scavare negli strati di apatia, di superficialità, di solitudine tecnologica che contraddistinguono la nostra realtà, per condurci verso una dimensione onirica, malinconica e dolente, nella quale i nostri veri sentimenti non debbono più essere nascosti, scendere a compromessi o allinearsi con quelli che sono gli schemi ed i modelli dominanti, proposti dai nuovi ed in parte dai vecchi media. La melodia lenta e disarmante della chitarra, la sofferenza della voce, l’amarezza delle tastiere, ci aprono porte che tenevamo, ormai, chiuse da tempo e liberano quell’umanità che avevamo ridotto in catene, permettendo alle cavalcate elettriche di “Lest We Forget” e della successiva “Too Close To The Truth” di esaltare il nostro lato più emotivo e intraprendente, esuberante e voglioso di coltivare le proprie passioni, nonché di realizzare i propri sogni, indipendentemente da ciò che accade attorno a noi, dalle mode che ci vengono “suggerite”, dalle critiche ricevute, dagli sguardi ostili e dalle parole intrise di disprezzo, di rabbia e di violenza.
Sentimenti e comportamenti negativi che, in realtà, nascondono la frustrazione di coloro che non hanno alcuna intenzione di rischiare, di mettersi in gioco e, quindi, si accontentano di divenire solo degli spettatori, dei buoni consumatori, degli zombie, dei cagnolini ubbidienti che si limitano a seguire l’ombra del proprio padrone, senza domandarsi quale sia lo scopo, quale la direzione, quale la prospettiva. Ed intanto il loro tempo passa, le loro energie si esauriscono ed alla fine, “Cryin”, il brano più cupo e vibrante dell’album, cancella, per sempre, quelle che potevano essere altre aspettative, altre giornate, altre storie, altre vite.
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