Che strano balletto è quello a cui assistiamo, impotenti e quasi soggiogati, tra questo ipocrita capitalismo o neo-liberismo che dir si voglia che, in fondo, regola, scandisce e modella le nostre giornate e questa forma ripulita e quindi ancor più pericolosa di buon vecchio nazionalismo. Ed il tutto avviene sotto lo sguardo bonario e complice della rete, dando vita a questo tossico mostro a tre teste, le quali, prima o poi, finiranno per sbranarsi a vicenda, rendendo questo mondo un posto ancora peggiore: sempre più violento, più pericoloso, più iniquo, più ingiusto, più folle, più malato, mentre tutti noi, nel frattempo, saremo sempre più pronti ed attenti a guardare la pagliuzza nell’occhio di coloro che ci stanno attorno, piuttosto che la trave nel nostro.
I Tropical Fuck Storm continuano questo loro vibrante, sferzante ed energico viaggio attraverso il peggio del peggio, senza aver paura di aggirarsi nei meandri più sporchi, aggressivi, rabbiosi della rete globale, laddove il confine tra governi ed organizzazioni sovranazionali, tra politica e interessi economici e finanziari privati, tra coloro che si professano assolutamente liberali e democratici e coloro che, invece, impongono, nel nome del popolo sovrano, di Dio o dei suoi profeti, regimi dispotici, assolutistici e dittatoriali, diventa sempre più labile, permettendo, dunque, alle parti in causa di fare i loro affari. Affari che, ovviamente, saranno siglati sulla pelle delle persone più deboli, sulla loro libertà, sulla loro sicurezza, sul loro benessere, sulla loro felicità. Ed intanto la band australiana continua setacciare le viscere del Male, a bere il suo veleno, dando vita a questo virulento, intenso, inquieto ed attraente miscuglio di sonorità sperimentali, allucinanti, punkeggianti, garage, blues e psichedeliche, che potrebbero divenire la perfetta colonna sonora della nostra auto-distruzione.
“Deep States” è, allo stesso tempo, un lavoro minimale ed elettrizzante; distorto e veritiero; cattivo, ma generoso di trame ed atmosfere intrise di spensieratezza e di riverberi indie-pop, che amplificano il contrasto con quel mondo di suoni post-industriali e contaminati, crudi e ossessivi, che si abbattono sugli ascoltatori e soprattutto sulle loro piccole esistenze. Esistenze dominate da finte bandiere, finte preoccupazioni, finti eroi, finte promesse, finte elezioni, mentre un oceano di informazioni ci travolge e ci rende succubi ed inermi, in modo tale che quelle che sono le parti peggiori, fuori e dentro di noi, escano dalle oscure profondità nelle quali, solitamente, restano nascoste e prendano il sopravvento.
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