In Russia e nelle altre ex-repubbliche sovietiche, negli anni a cavallo tra il vecchio ed il nuovo millennio, le persone poterono, nuovamente, “riassaporare” e “rioccupare”, sia fisicamente, che emotivamente, spazi, ai quali, in passato, sarebbe stato arduo, se non impossibile, avvicinarsi, ma, allo stesso tempo, esse furono costrette a fare i conti con un clima generale di insicurezza, di precarietà e d’indigenza.
Le città si riempirono di territori ostili e pericolosi, nei quali bisognava necessariamente confrontarsi con i nuovi sistemi di potere che si stavano via, via imponendo, accordandosi e scontrandosi continuamente tra loro. Si percepiva, dunque, un’atmosfera cupa e decadente, nella quale era oggettivamente abbastanza difficile poter esprimere, con ritrovata gioia, la propria creatività e la propria fantasia, anche se si era solamente dei ragazzini, i quali, però, crescendo, avrebbero potuto acquisire, magari, la capacità di comunicare l’ansia, la frustrazione, l’impotenza e la tensione, accumulata in quegli anni di formazione, in altre forme espressive.
Forme attraenti ed accattivanti che fanno del tocco gelido e dolente, delle ritmiche scarne e claustrofobiche, dei loop ipnotici, della destrutturazione post-industriale, delle melodie artificiali dei sintetizzatori, il loro tratto peculiare e distintivo. Sonorità di matrice dark, post-punk e new wave, intrise di un’elettronica malinconica e profonda, perennemente sospesa tra l’austerità del proprio corposo passato e la frenesia dei tempi moderni, così rarefatti e diluiti; un’elettronica romantica ed atroce, come sa esserlo solamente la natura che in questi remoti e sconfinati paesi, nei loro grandi spazi incontaminati, mette in mostra tutto il suo splendore, ma anche la sua forza mortale, brutale e selvaggia.
Una musica che trasforma il grigiore delle periferie, le incertezze politiche, il risveglio di passioni sopite, in un’inquietudine positiva e costruttiva; nella voglia di essere sì i testimoni della transizione, ma anche gli artefici di nuove percezioni, di nuove esperienze – individuali e collettive – di nuovi stimoli, di nuove speranze. Un punk che guarda oltre l’inverno, oltre i palazzoni di cemento, oltre le spoglie periferie, oltre la nebbia che nasconde l’orizzonte, oltre il vuoto ed affamato nichilismo, oltre le macerie, i miti e i rottami delle epoche trascorse e che custodisce, dentro di sé, il prezioso seme del rinnovamento. Certo, musicalmente ritroviamo trame del passato – dai Cure ai Joy Division, dai Depeche Mode a Siouxsie And The Banshees – ma la passione è assolutamente autentica e veritiera ed è rivolta al futuro.
Dopotutto ogni narrazione ha il suo filo conduttore: l’Unione Sovietica, il “contrabbando” di dischi e di nastri considerati vietati dal regime, il crollo del comunismo, la globalizzazione, la negazione di ogni certezza e riferimento, l’illusione di poter vivere un perenne, spensierato e infantile presente, il ritorno a trame e melodie che, in fondo, hanno sempre saputo esprimere, con grande efficacia, il senso di impotenza, di vuoto, di stagnazione che, spesso, si impadronisce delle nostre esistenze, soprattutto quando vecchi e nuovi sistemi di potere tentano di imporre i loro subdoli meccanismi di prevenzione, influenza e controllo.
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