A Richard H. Kirk
Sì, è davvero così: i Cabaret Voltaire non sono mai stati una band nel senso classico del termine, ma, più propriamente, sono stati un progetto artistico seminale, non solo per la musica elettronica e industriale, ma per lo stesso movimento punk. Il loro sguardo, infatti, è stato sempre rivolto a ciò che avveniva nel sottosuolo, nelle zone marginali, nei club e nelle periferie delle nostre città.
I punti cardinali del progetto sono sempre stati la sperimentazione; la schiettezza dei sentimenti e degli stati emotivi; la spigolosità delle forme estetiche; l’amore per il dance-floor, mentre, nel frattempo, quello che era il nostro mondo cambiava continuamente il proprio volto, abbracciando dapprima strategie e politiche sociali ed economiche di forte impatto industriale e capitalista, tali da sconvolgere, in maniera profonda, segnante e duratura, la geografia fisica dei luoghi e successivamente, sposando, nel nome del neo-liberismo e della globalizzazione, processi e filosofie di smantellamento, di spostamento e di sradicamento che hanno provocato una ulteriore trasformazione della nostra società.
Non più società dell’industria, bensì società dell’informazione.
Trasformazione che i Cabaret Voltaire hanno saputo accompagnare dal punto di vista musicale, inglobando elementi provocatori, post-industriali, sghembi, crudi e disumanizzanti all’interno delle loro trame sonore e dando vita a un immaginario collettivo obliquo ed estraniante e a una poetica di matrice elettronica che fosse, allo stesso tempo, innovativa, imprevedibile ed in grado di dare un senso di continuità alle ossessioni primordiali dei Velvet Underground, di Andy Warhol, di William Burroughs, del Dadaismo e della Beat Generation, unendo tempi, modi e luoghi distanti tra loro. Unione resa possibile attraverso la manipolazione del rumore, dei respiri, dei battiti, delle voci, delle narrazioni collettive che, da sempre, contraddistinguono e caratterizzano le diverse epoche storiche dello sviluppo umano. Un atteggiamento vivido e pulsante che ritroviamo nell’attuale scena post-punk, nelle sue ritmiche abrasive ed estranianti, nelle sue blasfemie politiche, nella tendenza a inglobare e fare proprie ritmiche techno, dub ed house, denudando tutta l’ipocrisia e la falsa solidarietà che, sovente, si cela dietro i nostri comportamenti. Tutto ciò rende i Cabaret Voltaire estremamente e visceralmente attuali.
Perdersi nei meandri di “Nag, Nag, Nag”, seguire i beat claustrofobici dei loro brani, è come nuotare in un buco nero, è come riassaporare idee e pensieri che credevamo di aver sconfitto definitivamente, è come aprirsi al dolore. Ma, allo stesso tempo, se ne ha la consapevolezza, perché quella dei Cabaret Voltaire non è solo una provocazione fine a sé stessa, ma è in gioco il nostro spirito critico, la necessità di avere un risveglio politico e sociale, nonché il bisogno di esprimere un diritto fondamentale dell’essere umano, quello alla verità. Senza verità non esisterà alcun passato, nessuna storia da raccontare, nessuna lezione dalla quale poter trarre un monito o un insegnamento e se non esisterà il passato, il presente sarà un tempo fasullo e una semplice caricatura di sé stesso, ed il futuro non potrà mai arrivare.
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