Espandere il proprio IO, esplorare nuovi stati sensoriali, percettivi ed espressivi, guardando sia al lato più tossico, depravato e deviato dell’umanità, quanto a quello più innocente, puro ed amorevole, mentre un miscuglio di sonorità psichedeliche, blueseggianti, estranianti e accattivanti si abbattevano sulle nostre esistenze, confondendone il senso temporale, alterandone la memoria, distorcendone gli spazi, in un tripudio di suoni che ti invitavano all’annullamento, alla resa, all’abbandono.
Il disco ha, dunque, un’anima e un messaggio primordiale, ingenuo, colpevole, dannato, rivelatore, che sarebbe stato impossibile e assolutamente inutile e sbagliato tentare di riprodurre e riproporre. Meglio, allora, allontanarsene, scegliere nuove prospettive e nuove angolazioni, per brani che, ormai, sono la sacra espressione della grandezza e della tristezza umana, al di là del periodo storico nel quale essi sono stati concepiti, al di là degli stessi Velvet Underground, della loro poetica, della loro ruvida, amara, cruda dolcezza, perfettamente rappresentata da quella creatura sublime, gelida e magmatica che era Nico.
Ed è così che “Sunday Morning”, nell’interpretazione di Michael Stipe, si fa meno spigolosa e più morbida e rarefatta; “Femme Fatele”, grazie a Sharon Van Etten e Angel Olsen, diventa più intima, ma ,allo stesso tempo, è consapevole di dover cercare e creare un rapporto umano più positivo col prossimo; in “The Black Angel’s Death Song” i Fontaines D.C. danno voce alla crudezza dei tempi attuali, alle inquietudini sottese nel nostro modello economico, politico e sociale, così drammaticamente, diversamente e ugualmente ipocrita, meschino, bugiardo ed alienante; così come “European Son” lascia che Iggy Pop diventi il punto di incontro ideale tra passato e presente, mentre un’ombra malevola si posa sulle nostre esistenze, esattamente come accadeva 54 anni fa, quando questo album faceva sentire, per la prima volta, la propria voce e il suo implacabile e dolente soffio vitale.
Lou Reed aveva lasciato che le strade di New York – una New York che oggi non è più quella di allora, ma che, allo stesso tempo, continua ad essere tale altrove – entrassero nelle singole canzoni, mentre la sua voce bassa e profonda era quella del disilluso poeta di periferia, del drogato in cerca d’una nuova dose, dei disadattati che vivevano alla giornata, degli spacciatori che diffondevano morte e sollievo. Un crepuscolo esistenziale che ha senso solo nel suo vivido impianto originario, ma che artisti eccezionali come Matt Beringer in “I’m Waiting For The Man”, Thurston Moore in “Heroin” e St. Vincent in “All Tomorrow’s Parties” assecondano, lasciando che siano quei versi e non colui o colei che li interpreta, a stabilire che colore dare a questo nuovo orizzonte, scegliendo dove fermarsi, cosa lasciare e cosa portare via con sé.
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