“Io sono una che ascolta roba semplice
Non sopporto la tua new wave italiana stonata e triste”
Ushuaia, le Colonne d’Ercole, Campi Bisenzio, Gilead, gli anni Ottanta, luoghi e tempi epici che possono essere considerati, per un motivo o per l’altro, la fine e anche l’inizio del mondo. Un mondo che è passato dalla guerra fredda e dalla paura nucleare ad un interminabile flusso di informazioni binarie, il prezioso tesoro per il quale, oggi, le grandi super-potenze combattono tra loro, facendo sì che le nostre esistenze siano dipendenti da pochi e misteriosi interruttori, i quali, oramai, sono, sempre più, sotto il controllo dei soliti noti.
Ed è così che un potere che doveva essere distribuito e collettivo ed abbattere, di conseguenza, ogni forma di egemonia, in realtà, come ha dimostrato la recente crisi di Facebook/Instagram/Whatsapp, è brutalmente concentrato nelle mani di pochi eletti che non fanno che amplificare a dismisura le differenze tra le persone, creando classi, insiemi, gruppi via, via più piccoli e quindi via, via più deboli, più impauriti, più diffidenti e più arrabbiati. Ma, tutto sommato, più facili da controllare e soggiogare.
La realtà, intanto, collassa in una falsa rappresentazione virtuale, prodotta dai computer, la quale, sotto la sua apparente perfezione e l’eterna bellezza, nasconde le crude distorsioni e brutalità di quella che è la verità. Ma si tratta delle due facce della medesima luna, proprio come, tra gli anni Settanta ed Ottanta, accadeva con il punk e la new-wave, generati dal medesimo inquieto e marginale sottosuolo fatto da persone comuni che non ne potevano più del conformismo, dei luoghi comuni, delle immutabili regole imposte dal rock mainstream che rispecchiava, alla perfezione, gli ingranaggi, gli equilibri e i meccanismi della dominante società capitalista e borghese che l’aveva istituzionalizzato.
Se il punk fu soprattutto una breve e scomposta esaltazione anti-establishment, la new-wave, con i suoi suoni meno spigolosi, le sue produzioni più pulite, lineari e ricercate, il suo naturale approccio ad utilizzare, sfruttare e fare proprie le macchine che il progresso scientifico e la tecnologia mettevano a disposizione anche del mondo musicale, riuscì ad invadere ogni spazio, anche i più chiusi e bigotti, e trasformare il sintetizzatore nel grembo digitale da cui il seme vibrante, caotico, irascibile ed incazzato del punk avrebbe, finalmente, rivoluzionato la musica degli anni Ottanta ed oltre. Anche in luoghi, come l’Italia, da sempre marginali, secondari e periferici rispetto a ciò che avveniva in Inghilterra ed America.
Probabilmente, dunque, fu proprio il movimento artistico definito new-wave a rompere schemi e confini ed a rendere qualsiasi luogo, non solo Londra o New York, un possibile punto di inizio o di fine per una narrazione musicale che, nel nome della libertà d’espressione e movimento tipiche del punk, restava comunque personale, individuale e soggettiva, fortemente ibrida dal punto di vista musicale, ma in sintonia con l’ideale fondamentale di non seguire, a priori, spartiti e costruzioni sonore, verbali, concettuali, filosofiche, estetiche ed introspettive altrui.
Non semplice pop inglese, dunque, ma un’energia globale ed anticonformista, capace di andare oltre il singolo decennio e arrivare alla celebre copertina azzurra con il bambino fatalmente attratto dal facile e suadente amo del dio denaro.
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