Allacciate le cinture, perché l’uomo dei sogni ci condurrà in un viaggio turbolento attraverso il lato oscuro della natura umana, ampliando lo spettro delle nostre percezioni e facendoci immergere in una dimensione immensa. Una dimensione che abbiamo sempre finto di non vedere, preferendo colmare i dubbi ed il vuoto con un’esistenza spesa a rincorrere quella che è solo una forma urgente ed instabile di appagamento sociale, estetico e materiale, la quale, una volta che la luna sarà alta nel cielo notturno e Polly Jean tirerà su il sipario, si scioglierà immediatamente come fosse neve lasciata al sole.
La verità è come una demo casalinga: è spigolosa, grezza e soprattutto un po’ incasinata. Non ha bisogno di stucchevoli melodie, ti parla apertamente, vis a vis, spronandoti ad aprire gli occhi e vedere chi ti sta attorno, chi ti sta imbrogliando, chi sta, letteralmente, facendo a pezzi ciò che resta della tua sicurezza, del tuo orgoglio, del tuo amor proprio. Dunque, cosa cazzo stai ancora aspettando?
Fissiamo solamente il nostro limitato cortile, da dietro una finestra perennemente appannata, rintanati nelle nostre minuscole casette, presi da questo flusso malato di immagini sfocate, non ci rendiamo conto delle voci che si spengono e scompaiono, velocemente, davanti ai nostri occhi ciechi. Ed intanto la ruota gira, 28000 anime svaniscono e noi ne siamo assuefatti, diventando sempre più distaccati, insensibili ed irraggiungibili. Ma, al di là dei giudizi di colpevolezza e complicità, non esiste una distanza tale da non poter esser percorsa, prima o poi, da questo canto di morte ed oblio.
“Let England Shake” nasce dal bisogno di perdere di vista per un po’ il piccolo e soggettivo cortile che consuma ogni nostra energia e guardare al mondo esterno, facendolo, però, con la medesima umanità che riserviamo ai nostri affetti più cari e, in uno slancio auto-assolutorio, a noi stessi, senza seguire le facili e convenienti sirene utilitariste degli equilibri economici e geopolitici mondiali e senza pensare che sia solamente una questione di sicurezza interna, di diplomazia, di confini e limiti da rispettare. Perché se fosse così, significherebbe che non avremmo imparato nulla dal recente passato, dalla Grande Guerra, da ragazzi che cadevano come pezzi di carne, e saremmo condannati a vivere altri Iraq, altri Afghanistan, altre sconfitte, altro dolore.
Le parole possono avere un potere immenso ed una volta che sono state liberate, esse continuano a vivere nella carne, nelle pieghe della mente, tra le cavità cardiache, nel silenzio avvolgente della notte, sorprendendoci ogni volta in maniera diversa, adattandosi a qualsiasi situazione, per quanto essa possa essere assurda, travolgente, imprevedibile o alienante. Non importa la cornice, il contesto, il luogo, la cosa fondamentale è che “hai detto qualcosa / è stato davvero importante”.
Ci sono situazioni, nella vita, nelle quali la confusione prende il sopravvento; è come se fossimo sott’acqua, imprigionati in una morsa gelida che ci impedisce di ritornare in superficie e respirare. Intanto immagini spaventose, delittuose e violente, si accavallano caotiche dinanzi ai nostri occhi; sono il frutto delle nostre paure inconfessate, dei nostri peggiori incubi, di quelle dolorose ferite che non sono mai del tutto guarite, della momentanea mancanza di lucidità ed equilibrio, della rabbia primordiale che vuol prendere, a tutti i costi, il controllo delle nostre azioni, facendo sì che questa canzone tesa ed oscura, intrisa di crudo blues ed inquietanti riverberi grunge tipici degli anni Novanta, prenda, finalmente, vita.
Cosa fare, dunque? Forse dovremmo, innanzitutto, imparare ad accettarci ed amarci per ciò che siamo, piuttosto che tentare, in tutti i modi, di piacere agli altri, sposando, di conseguenza, comportamenti e soluzioni che sappiamo benissimo essere aggressivi, mostruosi e profondamente debilitanti per il nostro spirito, in quanto ci obbligano ad essere succubi e assoggettati alla volontà e alla compiacenza altrui. Così non potremo mai essere felici, resteremo per sempre soli ed arrabbiati, sempre più vuoti, sempre più aridi, sempre più secchi.
Il passo verso la paralisi emotiva e sentimentale, infatti, può essere assai breve. Una volta che le tue scelte sono dettate, unicamente, dal bisogno malato di soddisfare degli idioti, quel lato oscuro, di cui parlava l’uomo dei sogni, diventerà reale, come diventeranno reali i nostri demoni interiori, la disperazione, la frustrazione ed i problemi di salute perché noi siamo lo spirito, ma anche il corpo. Un corpo svenduto, ingannato, umiliato, che non dimentica, però, il proprio nome, le proprie origini, il proprio passato e quindi, attraverso questo auto-riconoscimento, può trovare la forza ed il coraggio di cambiare il proprio presente.
A volte proprio dal confronto con i luoghi devastati dal Male, luoghi nei quali la vera gioia riesce, comunque, a sopravvivere – come tra i resti di un negozio di strumenti musicali di Kabul – riesci a ritrovare la sensibilità smarrita e narcotizzata dal mix di veleno e colesterolo che l’opulenta società occidentale continua a iniettare nelle nostre vene. Questo brano diventa, quindi, il resoconto di un viaggio materiale e spirituale: dall’Afghanistan alla Grecia, a contatto con sopravvissuti e migranti, fino a raggiungere il cuore lacerato dell’America, una delle strade più marginali di Washington, nella quale, tra un lancio di dadi e l’altro, altre vite e altre narrazioni continuano, imperterrite e dimenticate, ad andare in scena.
Ridurre il percorso umano ed artistico di PJ Harvey a sole dieci canzoni è assurdo, oltre che fortemente limitante… la conclusione di questo breve cammino la affidiamo ad “A Place Called Home”, alla sua idea di poter riuscire a contrastare l’effetto delle forze disumanizzanti che dominano la società post-industriale dei media e delle informazioni, tentando di coltivare rapporti genuini, cioè legami in cui ciascuna parte non si preoccupa solamente di realizzare ed appagare sé stessa, ma anche l’altro. Una relazione così potremo chiamarla, finalmente, casa.
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