“Korn”, l’album di debutto era stato un micidiale, angoscioso e strafottente concentrato di ostilità e violenza; un lavoro aggressivo, nato dal bisogno di prendere le distanze dall’ambiente squallido, brutale e distruttivo nel quale esso era stato generato e del quale si era, a sua volta, alimentato. Questo secondo disco della band californiana – nonostante il fatto che racchiuda, al suo interno, una gemma di puro disprezzo come “Good God” o un torbido ed amaro intruglio di viscerale rabbia come “Twist” – è pervaso, in generale, da atmosfere più oscure, con un song-writing più maturo ed ispirato e trame sonore, che sono meno impulsive e dirette, ma più stratificate e complesse, in maniera tale da evidenziare i diversi stati emotivi, le diverse necessità, le diverse esperienze, le diverse voci, che hanno contribuito alla sua realizzazione.
C’è, dunque, altro oltre la violenza fine a sé stessa. C’è, innanzitutto, il desiderio di sperimentare nuovi percorsi sonori, utilizzare il disordine e l’inquietudine che ciascuno dei componenti della band sentiva dentro di sé e percepiva dal mondo esterno, come una fonte di ispirazione che permettesse loro di riordinare e ricostruire il proprio mondo, le proprie relazioni sociali, la propria visione del futuro, la propria musica.
Una musica che continua a fare leva, ovviamente, su strutture nu-metal ed hip-hop, le quali, però, acquistano uno spessore più intimista, darkeggiante e crepuscolare; da ciò nasce il desiderio di non fermarsi solo a ciò che è visibile e superficiale, ma di andare più a fondo, nelle ferite che sono ancora aperte, tentando di fare propria anche un altro tipo di risposta alla paura ed al dolore che ci consumano da dentro. Una risposta che non si limitasse al solito deciso e vibrante pugno nello stomaco, ma che toccasse le corde dell’empatia, della comprensione, dell’amorevole sostegno.
Sentimenti diversi, non ancora chiari, che, però, arricchiscono il background musicale dei Korn; le loro sonorità si fanno più catartiche, consce del fatto che la vera via d’uscita dalla pressione e dagli ingranaggi sociali che intendono ridurci a pezzi, non può essere ridotta esclusivamente ad una fuga verso lo sballo artificiale, verso l’alcool e verso le droghe. L’album diventa, quindi, una sorta di confessione; quel dannato buco, nel quale sopprimere e nascondere mancanze e sofferenze, è sempre lì; quel mare di veleno che desidera solamente risucchiarci via per sempre è ancora lì; ma c’è anche la necessità di parlare della propria realtà, dei tradimenti e delle delusioni subite, delle voglie e delle passioni, delle insicurezze e delle relazioni completamente sbagliate, nonché della fottuta insofferenza che conduce agli eccessi, all’abuso, agli aghi che si conficcano nel cervello e quindi alla distruzione di sé stessi.
Auto-distruzione ben rappresentata dall’immagine ritratta sulla copertina del disco; da quell’ombra minacciosa riflessa allo specchio, da quell’ombra in agguato alle spalle del bambino intento ad aggiustarsi la cravatta. Quell’ombra è la raffigurazione e la sintesi dei nostri demoni personali, un mix di chitarre abrasive, di bassi cupi, di slogan ad effetto, di ricordi dell’infanzia, di tutto ciò che ha contribuito a condurci qui adesso, dinanzi al nostro specchio oscuro.
Pubblicazione: 15 ottobre 1996
Durata: 48:10
Dischi: 1
Tracce: 14
Genere: Nu-Metal
Etichetta: Immortal, Epic
Produttore: Rosso Robinson
Registrazione: aprile–giugno 1996
Tracklist:
1. Twist
2. Chi
3. Lost
4. Swallow
5. Porno Creep
6. Good God
7. Mr. Rogers
8. K@#Ø%!
9. No Place to Hide
10. Wicked
11. A.D.I.D.A.S.
12. Lowrider
13. Ass Itch
14. Kill You
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