Il cielo di “Qalaq” è il cielo infuocato di Beirut, ma, allo stesso tempo, è il cielo infuocato di chiunque abbia a cuore un mondo più giusto; un mondo basato sul rispetto reciproco, sulla comprensione, sulla verità e sulla solidarietà, nel quale le persone siano in grado di andare al di là delle apparenti differenze sociali, etniche, culturali, economiche o religiose e abbiano la reale e concreta possibilità di trovare, finalmente, un sentire e soprattutto un’empatia comune.
La situazione libanese non deve essere percepita come un caso isolato, come qualcosa che non ci riguarda e che possiamo tranquillamente ignorare, voltandoci dall’altro lato. Essa è solamente la punta di un minaccioso iceberg che sta puntando dritto verso ciascuno di noi, verso le nostre case comode, i nostri salotti, i nostri costosi artefatti tecnologici. Questo iceberg, sotto la superfice di un oceano di apparenze estetiche, di distrazioni, di menzogne e di tanti luoghi comuni, nasconde strati e strati di intolleranza, di razzismo, di veleno, di odio, di rabbia e di violenza, i quali, se non cambieremo, radicalmente, il nostro modo di vivere, ci porteranno, inevitabilmente, verso una disastrosa fine comune.
Se solo aprissimo gli occhi; se solo ci staccassimo – almeno per un momento – dall’ammaliante rete virtuale d’informazioni che ci avvolge e ci controlla, ci rendemmo conto che le prime evidenti testimonianze di questa Apocalissi sono già qui, proprio adesso, tra di noi.
Crisi energetiche, crisi ambientali, crisi politiche, crisi sanitarie, crisi migratorie, crisi economiche, sono, ormai, all’ordine del giorno, mentre, nel frattempo, il mondo diventa un luogo sempre più insicuro e nuovi e vecchi conflitti continuano a mietere le loro vittime, soprattutto tra le persone comuni, quelle più povere, più fragili, più indifese. Gaza non è più solamente una cittadina palestinese abbandonata a sé stessa, violata ed assediata, umiliata e disprezzata, derisa e mal governata, ma è in noi, è il risultato malato di tutte le nostre colpe, le nostre mancanze, i nostri errori; di tutti quegli atteggiamenti e quei comportamenti brutali ed asimmetrici che mirano, unicamente, al proprio piacere, al proprio tornaconto personale e all’esclusivo appagamento dei propri bisogni individuali, senza preoccuparsi del dolore e delle difficoltà altrui.
Musicalmente i Jerusalem In My Heart di “Qalaq” si muovono tra trame minimali, preoccupanti, e scheletriche, dando vita ad atmosfere oscure, claustrofobiche e dolorose, ma allo stesso tempo intense ed accattivanti, nelle quali elementi più moderni ed elementi più tradizionali continuano ad essere, meravigliosamente, fusi tra loro, in quello che è il familiare solco delle loro sonorità ambient, folkeggianti ed elettroniche. Un linguaggio ampio e globale che, al solito, non è solamente musica, ma è anche immagini, visioni, colori, sfumature che prendono forma durante i loro spettacoli dal vivo, ma che esistono anche dentro di noi. Il passato ed il futuro divengono un tutt’uno; diventano un fertile unicum temporale nel quale le parole non sono più necessarie, ma contano solamente le percezioni e gli stimoli che provengono dall’esterno e che si combinano con i nostri pensieri, i nostri sentimenti, le nostre emozioni nascoste. Questa è l’unica strada per trasformare il rumore in armonia, la guerra in pace, il caos in equilibrio, le sofferenze patite e le lacrime versate in un domani che sia davvero migliore, indipendentemente dalla sponda di Mediterraneo sulla quale viviamo, indipendentemente dal nostro quartiere, dalla nostra città, dal nostro paese, perché, in fondo, siamo tutti sulla medesima terra, sotto il medesimo cielo, che non deve essere più avvolto dalle fiamme dell’odio e delle bombe, ma deve tornare a risplendere solamente per la preziosa presenza delle stelle.
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