Siamo nell’abisso, circondanti da suoni angolari e sinistri, mentre forze brutali, caotiche e maligne divorano il nostro mondo, gli ultimi barlumi di umanità, gettandoci in una sorta di “medioevo prossimo venturo” nel quale il lato più selvaggio e più istintivo della nostra personalità prende il sopravvento. Il pericolo elettrizza l’aria; ogni scelta può rivelarsi fatale; la tecnologia domina il pianeta; macchine sensienti hanno ridotto in schiavitù gli esseri umani, distruggendo ogni ideale, ogni sogni, ogni aspettativa, obbligandoli ad una folle e crudele lotta per la sopravvivenza.
Il verbo è codice sorgente; un potente linguaggio di programmazione che anima la materia inerme, facendo dell’acciaio, del ferro, delle fibre sintetiche, delle plastiche, del carbonio, dell’alluminio, del vetro, delle terre rare, la nuova, malevola e indistruttibile carne. Tutto ciò alimenta queste sonorità elettroniche e industriali, si trasforma in atmosfere noise e post-punk intrise di torbido groove, in una narrazione rumorosa e claustrofobica, ma assolutamente avvincente, che rapisce gli ascoltatori, lasciandoli in balia di questo distropico, terrificante e alienante futuro.
Ma, allo stesso tempo, al di là dell’artificiale muro del suono costruito dai Pop.1280, suadenti trame synth-pop, più calorose e più morbide, vibrano sotto la superficie increspata di “Museum On The Horizon”, guardando sia alla spensieratezza della new wave anni Ottanta, sia alla speranza insita nella natura stessa dell’uomo: possiamo, certamente, sbagliare; possiamo, sicuramente, piegarci; ma non ci spezziamo. Un minuscolo seme può fare tanto, anche se adesso è nascosto e immobile nel gelo umido della terra, così come possono fare tanto le luminose e fiduciose trame pop celate di brani come “Not To Deep” o “Human Factor”. Esse sono nascoste nel ventre oscuro del Male, ma la vita, però, sa essere più forte; è questo il messaggio che ci dona la band americana, la vita è più forte perché può rinascere anche da un vuoto e arido grembo di metallo.
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