“Ungrateful Heart” evoca istinti mai sopiti, fiori del male d’ispirazione baudelairiana, freschi come la carne dei bambini, gravi e corrotti come quelle ombre che, da sempre, tormentano gli esseri umani, infliggendo loro il fardello di un insopportabile vuoto, dal quale, però, spuntano, come malefici magici, le nostre peggiori paure, le ansie e le ossessioni che ci impediscono di essere noi stessi e ci spingono verso comportamenti rabbiosi, ottusi e violenti.
Se da un lato, in “Black Widow”, la band italiana ci sprona ad essere più forti di queste assurde fobie che ci rubano la libertà; dall’altro lato, in “FYBBD”, ci mette in guardia: se – per qualsiasi motivo – cedessimo a questo male assoluto, sposando comportamenti di stampo chiaramente fascista, allora, sarebbe meglio farla finita per sempre, perché significherebbe che, non solo non abbiamo imparato nulla dal recente passato, ma non riusciamo neppure a percepire il dolore che ci circonda; il grido d’aiuto di milioni di persone che vivono, quotidianamente, storie di guerra, odio, disperazione e malattia, nonché la flebile voce di un pianeta, sconvolto dallo sfruttamento su larga scala, dall’inquinamento, dall’arroganza e dalla brama di possesso, le quali lo stanno, letteralmente, condannando a morte certa.
Tutto ciò consente ai The Gluts di intrecciare, in maniera accattivante e coinvolgente, atmosfere riflessive, introspettive e psichedeliche con trame dal sapore punkeggiante, rivoltoso e sociale che non hanno alcun timore di scrutare nell’abisso, tentando di mostrarci come la pura malvagità sia sempre qualcosa di stupido, insensato e controproducente. Intanto il torbido e abrasivo presente si riempie di atmosfere oscure che hanno il sapore e il profumo degli anni Ottanta, ma non quelli abbaglianti, lucenti e sfarzosi che siamo abituati a vedere sui media di regime, bensì quelli più dark, contorti, crepuscolari e distopici, stretti tra l’incubo di una devastante guerra nucleare e la drammatica fine dei proclami rivoluzionari che, per anni, avevano accompagnato i sogni della working class.
Non c’è alcuna paura nel disco, è tutto un turbinio di suoni abrasivi e distorti, ipnotici e selvaggi, finché dal buio non emerge la suadente pacatezza di “Leyla, Lazy Girl From The Moon”, un brano lunare accompagnato dal bucolico cinguettio degli uccelli, l’ultimo sorriso di madre natura, l’ultima amorevole carezza, l’ultimo raggio di giovanile spensieratezza, prima che i suoni urbani e claustrofobici del progresso facciano la loro irruzione, prima che la loro spasmodica fame di risorse, di esistenze, di storie, di potere, trasformi una realtà che doveva essere eterogenea e diversificata, in un deserto ostile, in uno stato comatoso, in un cuore senza alcuna vitale linea di gratitudine, in un fantasma che non può provare altro che orrore.
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