Il rischio più grosso per la docu-serie Disney incentrata sui Beatles o meglio sulle sessioni di registrazione di “Let It Be”, potrebbe essere quello di risultare eccessivamente lenta ed estenuante, soprattutto per coloro che non hanno chissà quale conoscenza e confidenza con i Fab Four, mentre potrebbe rilevarsi una sorta di isola del tesoro per i fan più attenti e preparati.
Dopo aver deciso di non esibirsi più dal vivo, dopo le celebri polemiche suscitate dalla frase di John Lennon sulla maggiore popolarità della band rispetto a quella di Gesù, dopo l’evasione mistica in India, i Beatles avevano iniziato un percorso, dal punto di vista sonoro, più strutturato e complesso, rispetto alle semplici armonie pop dei primi album, cercando anche di sperimentare e fare propri elementi, trame e dinamiche caratteristiche del rock più psichedelico.
John, Paul, George e Ringo, in bilico sulla sottile linea di demarcazione tra la fine e un altro inizio, nel 1969 decisero di ripresentarsi dinanzi al proprio pubblico suonando dal vivo un nuovo album. Eccoli, dunque, impegnati a metter su questo loro spettacolo-concerto; eccoli, dunque, discutere, provare, farneticare, rivedere alcuni brani che risalgono agli inizi della loro carriera, chiusi in un teatro di posa che appare immediatamente inadeguato a costruire un ambiente sereno e familiare: è troppo freddo, troppo cavernoso, troppo dispersivo. Non mancano, ovviamente, momenti più tesi, come quando, ad esempio, George comunica ai compagni che prenderà una pausa dalle sessioni e se ne andrà via per giorni.
Il documentario di Peter Jackson è una testimonianza della inevitabile rottura, ma, allo stesso tempo, quando la band decide di spostarsi, per le prove, in uno spazio più piccolo, ci permette di osservare da vicino l’emergere di una ritrovata sintonia ed una forza che permetterà loro di portare a termine il proprio progetto e decidere, alla fine, di esibirsi sul tetto dell’edificio che li ospitava.
Il concerto è, ovviamente, la parte più musicale, più suggestiva e più accattivante di “Get Back” e probabilmente coloro che non vogliono perder tempo e preferiscono dedicarsi solamente alla musica suonata, possono, tranquillamente, iniziare da qui, dalla fine e poi, magari, ripartire dall’inizio e tentare di comprendere non solo l’aria che si respirava nella band, ma anche tramite quale percorso si era arrivati a quel punto e in quale contesto storico e sociale i Beatles erano immersi.
“Let It Be” ha rappresentato un punto di allontanamento definitivo nel percorso umano e artistico della band. Lennon, Harrison e McCartney pensavano già ai loro rispettivi album solisti, Paul non ha mai digerito la decisione di Lennon di assumere Phil Spector come produttore e lo stesso Lennon prese, immediatamente, le distanze da questo lavoro, definendolo come “badly recorded shit”, ovvero merda registrata male.
Questo documentario ha il merito di smorzare un po’ i toni, di mostrarci come, in realtà, in quel lontano 1969, la situazione non fosse così drammaticamente esplosiva come poi si è scritto e sostenuto nel corso degli anni. Ci sono momenti di tensione, di noia, di frustrazione ed in fondo ciò è normale durante un processo creativo che vede impegnati personaggi così complessi, ma ci sono anche momenti assolutamente preziosi. Come, ad esempio, quando John e Paul si cercano con gli occhi mentre eseguono “Two Of Us” o come quando la figlia adottiva di Paul, Heather, prende possesso del microfono e un John divertito ed entusiasta richiama l’attenzione della sua Yoko. E poi, ovviamente, ci sono i passaggi nei quali delle note e delle parole disordinate, senza un apparente senso logico, trovano, fatalmente, il loro equilibrio e pian, piano “Get Back” inizia a prendere magicamente forma e consistenza.
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