Liberateci dal male, liberateci dalle sue tentacolari ossessioni, che, sempre più, rivoltano e soggiogano le nostre esistenze. Intanto le sonorità magmatiche e metalliche dei Green Lung si fanno epiche e profonde, le parole si trasformano in riti magici e liberatori e scavano nella nostra intimità, consentendo a trame vivide e blueseggianti di intrecciarsi con le atmosfere doom e psych-rock della band inglese.
La purezza del passato scivola tra le crepe di questo claustrofobico presente, con la speranza che gli inquietanti e morbosi spettri che stringono d’assedio il nostro futuro siano spazzati via da nuovi modelli esistenziali, più sostenibili, più compatibili con il mondo che ci sta attorno, con le forze misteriose e selvagge che lo pervadono, con le silenziose e armoniose leggi che consentono alla vita di rinnovarsi, permettendole di non soccombere al tocco freddo e oscuro della morte.
I Green Lung guardano all’oriente, alla luce che avvolge il Creato, alla verità che si nasconde nelle antiche leggende, negli antichi miti, nelle preghiere e nelle invocazioni, in quei versi straordinari che, tramandandosi di generazione in generazione, sono giunti fino a noi e che possiamo sentire echeggiare tra i dieci brani di questo disco. “The Harrowing” è l’incantesimo che riapre i nostri occhi, che risveglia le nostre coscienze intorpidite, permettendo loro di non arrendersi al buio, alla cultura della morte che, con la sua falce, elimina ogni barlume di umanità che ancora resiste dentro di noi, obbligandoci ad uniformarci ad uno stile di vita materialista ed individualista basato esclusivamente sulla paura, sulla solitudine e sulla diffidenza, mentre, invece, noi abbiamo bisogno di ascoltare gli altri, di sentire il loro calore, di nutrirci dei loro corpi, senza che qualcuno ci colpevolizzi e ci chiami streghe o stregoni, tentando, in tutti i modi possibili, di emarginarci e tenerci lontani.
La staticità e l’immobilismo degenerano in una visione corrotta e malvagia del mondo, “Graveyard Sun” ci rammenta, invece, che la creatività e la fantasia plasmano la materia inerme; “Black Harvest” trasforma ferite sanguinanti in cicatrici che testimoniamo il nostro impegno e la nostra forza di volontà, mentre “Doomsayer” accompagna l’inesorabile scorrere del tempo, granello dopo granello, un istante dopo l’altro, nella consapevolezza che ciascuno di essi è un tesoro inestimabile, un tesoro che ci appartiene e che non dobbiamo cedere a nessuno, per quanto possano apparire rassicuranti o inquietanti le sue menzogne.
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