Stormi di parole che esprimono la necessità di migrare verso una versione migliore di noi stessi, indispensabile metamorfosi se intendiamo – al di là delle classiche frasi di circostanza che abbondano in rete, sulla carta stampata, tra i vecchi e nuovi media, ma anche tra i politici e nei loro incontri ufficiali – costruire un mondo che sia più ospitale, più giusto, più eco-compatibile.
Inutile andare a cercare colpevoli e capri espiatori altrove, se non guardiamo prima dentro di noi, superando ogni invidia, ogni arroganza, ogni male, ogni assurda e violenta brama di potere, di ricchezza o di successo.
I desideri nascono dai nostri sogni più intimi, dal naturale bisogno umano di amare e di sentirsi amati, costruendo qualcosa che possa testimoniare il nostro passaggio su questa Terra, ma se il materialismo, l’egocentrismo e l’individualismo prendono il sopravvento, allora i desideri diventano un esplosivo miscuglio di cupidigia, frenesia e smania di imporsi sugli altri, facendoci vivere in uno stato di fame perenne che ci consuma, ci corrode e ci fa impazzire.
Cristina Donà costruisce una serie di accattivanti e suadenti riflessioni musicali, che si insinuano nelle crepe e nelle ferite aperte di queste decadenti architetture neoliberiste di cui ci siamo circondati, pensando così di essere più protetti e sicuri, mentre, in realtà, siamo solamente più soli e più pieni di pregiudizi, agognando di riunirci con quella parte che rappresenta tutto ciò che ci completa, che ci appaga, che ci perfeziona, che ci eleva verso le stelle, permettendoci di andare al di là di questi meri oggetti artificiali, che per quanto ammalianti e tecnologici, alla fine, non faranno altro che deluderci e stancarci.
“deSidera” non è immune dall’amarezza, nonostante, infatti, sia pervaso da armonie cinematiche ed ipnotiche che accarezzano i nostri sensi, è consapevole della cruda realtà del nostro presente; dell’alterazione di equilibri millenari; del trauma della recente pandemia; dell’adozione di modelli di sviluppo che, nonostante la crisi sanitaria, restano insostenibili e distruttivi. Intanto le trame più calde e paesaggistiche dell’album si confondono in una dimensione eterea e rarefatta, piena di suggestivi elementi sintetici e digitali, che ci spiazzano e ci fanno perdere i nostri abituali riferimenti, proprio come avviene ai marinai quando perdono di vista le costellazioni che conoscono meglio e si ritrovano a vagare verso un futuro cha appare ignoto, sconosciuto e minaccioso.
L’indie-rock primordiale di Cristina Donà pare arrendersi al buio della notte, svuotarsi dei suoi momenti più aggressivi, ma, in realtà, sta semplicemente mutando, sta trattenendo il fiato, sta abituando i propri occhi agli spettri e alle ombre che vivono nel buio, ci sta sussurrando tutte le storie, tutti i fatti, tutte le verità che non abbiamo mai voluto ascoltare e che abbiamo sempre preferito seppellire sotto miliardi e miliardi di byte e di menzogne. Ma adesso che la fine sembra imminente, cerchiamo di trovare conforto in immagini nostalgiche del passato, nel ricordo di sapori familiari, nel tocco sensuale della tua pelle, in tutto ciò che la memoria rende più piacevole, nelle pennellate appassionate che questi dieci brani, come fossero onde improvvise, scavano nel nostro subconscio collettivo, spingendoci ad essere più forti delle paure e dei titoli di coda.
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