“Out Of The Sky” è un album introspettivo, intriso di sonorità grunge tipiche degli anni Novanta, ma, emotivamente e concettualmente, figlio del nostro presente; figlio di giorni infami, nei quali la distanza tra le persone non è sia fisica, che spirituale.
Nel frattempo, le élite politiche mondiali traggono preziosi e straordinari vantaggi nell’amplificare, a dismisura, il clima di perenne emergenza nel quale, ormai, sopravviviamo da circa due anni. La maggioranza degli organismi di informazione, intanto, sembra seguire, pedissequamente, senza più alcuno spirito critico, le decisioni dei vari governi nazionali, avallandole, silenziando ogni dissenso – anche qualora esso fosse costruttivo – e rinunciando al suo fondamentale ruolo di ultimo baluardo della democrazia.
Ogni nostro sogno, ogni nostro programma, ogni nostra passione, ogni nostra prospettiva pare essere stata congelata e noi stessi viviamo in un tempo sospeso; creature infelici e tormentate, tramortite dal consumismo e consumate dall’interno dalla solitudine, confinate nei loro minuscoli appartamenti iper-tecnologici, nei loro piccoli e grandi egoismi, alla disperata ricerca di conforto e di calore umano. Conforto e calore che non riusciranno mai a trovare in quella dimensione surreale, alienante e vorace che è la rete globale, finendo in una spirale di menzogne che alimenterà l’insicurezza, la sfiducia e la rabbia.
Sentimenti negativi che vengono, abilmente, concentrati ed incanalati dai media di regime contro nemici inesistenti, nemici che il più delle volte sono esattamente come noi, con le medesime debolezze e le medesime difficoltà; è uno schema ricorrente, ideato per confonderci e per accecarci, in maniera tale da non farci vedere le mani tese, da nasconderci l’amorevole fiducia celata nei meandri oscuri di “High Horse”, nonché la forza di volontà ed il coraggio con i quali “Soul Jar” ci sprona a voltare pagina e sposare stili di vita diversi, nel nome di tutti quei piacevoli ricordi e quei preziosi momenti che custodiamo dentro di noi e che ritroviamo tra le note e le parole di “The Vine”. Immagini che scorrono con ostinata leggerezza, incuranti dei giorni passati, come se si trattasse delle acque del Salt Creek, il fiume del Nebraska che da il nome alla band, ma che rappresenta anche un modo per non dimenticare mai chi siamo, tutto quello che ci ha consentito di essere qui adesso e soprattutto cosa possiamo fare per migliorarci e superare la subdola e virale disperazione di questo nostro presente.
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