Credevo di urlare, ma in realtà restavo in silenzio.
Ultimo rifugiato, mentre le parole echeggiavano dentro di me, escludendo chiunque tentasse di varcare la tagliente e affilata soglia della mia coscienza. Ed alla fine, anche tu, ammalata di un orrendo vuoto, te ne andasti via, lasciandomi solo. Ma non ti biasimo, è una canzone talmente triste che farebbe impazzire anche i bambini, prosciugandoli di ogni sorriso, vorrebbero solamente tornarsene di corsa a casa, dalle loro madri paranoiche e compiacenti. A casa, stritolati da quel bene intransigente e assoluto che ritrovo nei tuoi occhi.
Sei l’ipnosi.
Ed io sarei voluto restare qui, sotto questi cieli di alberi di limone, ma sono stato solamente un errore, un vizio, un torto, un oggetto inutile da gettare via, quando non ti serve più. Questo perché siamo prigionieri di giorni e di notti che separano, invece di unire; che distruggono, invece di costruire; che restano svegli, invece di dormire, aggiungendo dolore su dolore, disperazione su disperazione, sangue su sangue, lutto su lutto. Un gioco perverso che consuma i suoi stessi giocatori, nell’attesa di quel definitivo ed abbagliante taglio finale che sarà l’inizio di un’altra storia.
Una storia nuova, per un mondo nuovo, per un anno nuovo, un anno nel quale slogan e proclami politici non avranno più senso, spegneremo internet, la TV ed ogni altro aggeggio elettronico ed ascolteremo, finalmente, il rumore delle onde, ritrovando un approdo al di là di questo torbido, rabbioso e insaziabile mare.
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