“Late Bloom” ha l’urgenza della disperazione, le sue sferzate di rumore, intrise di sonorità shoegaze, si abbattono su questo mondo alla deriva, spingendoci ad essere più veri e più istintivi, piuttosto che seguire mode e schemi che ci disumanizzano e ci rendono solamente più vuoti, più frustrati, più soli.
Una solitudine che ha il sapore della paura, della diffidenza, dell’isolamento e delle tante, troppe, innumerevoli chiusure forzate che hanno sconvolto la nostra fragile e precaria quotidianità. Siamo fili sottili, scossi dal vento dei riverberi e delle distorsioni, avvolti dalla nebbia dei nostri stessi pensieri, delle nostre stesse manie e delle nostre stesse fobie più irrazionali e paranoiche, in attesa di una connessione diversa, una connessione emotiva e spirituale – un volto amico, una traccia concreta da poter seguire, una canzone, un ricordo o una speranza – che possa illuminarci e permetterci di uscire allo scoperto, di mostrare come siamo fatti dentro, di uscire dal loop spazio-temporale dei perfetti osservatori e metterci in gioco.
Certo, il rischio è altro dolore e altra sofferenza, un torbido miscuglio di ossessioni oscure che caricano di crude, frementi e trepidanti trame post-hardcore questi dieci brani, arricchendo l’album di suoni pesanti e metallici il cui obiettivo è risvegliare queste nostre coscienze addormentate, convinte, ingenuamente, che qualcuno, dall’altro capo del filo di rame, ci faccia ascoltare la sua voce. Ma l’attesa non può essere eterna, il tempo non si può fermare; di conseguenza, la band italiana non può fare altro che ampliare i propri orizzonti, lasciare che le parole si trasformino in rabbia elettrizzante, in un’immagine, un disegno, una foto – non importa se è sfocata o se è stata spezzata in due – da cui poter, finalmente, ricominciare.
A vivere. A conoscere. A incontrarsi. A sognare.
Comments are closed.