Sono davvero possibili i ritorni? Emma Ruth Rundle ne sussurra l’importanza e lo fa attraverso le sue sonorità dark e folkeggianti intrise di una dolente malinconia che sembra essere perennemente sul punto di spezzarti, per sempre, il fiato, mentre quell’ultima domanda, a metà strada tra una richiesta disperata e una folle speranza, resta in bilico, tra passato e futuro, tra sogno e realtà, tra luce e buio, sulla punta affilata e tagliente d’un coltello.
Le visioni apocalittiche dell’artista americana scorrono fluide attraverso stanze oscure e crudeli, nelle quali i nostri peggiori demoni, interiori ed esteriori, assumono la forma concreta e brutale di dipendenze fisiche e mentali, nalla vana attesa di un salvatore che non potrà mai essere quello di cui fantasticano le favole ed i miti, ma che avrà il sapore dolciastro del metadone mescolato con lo zucchero ed il viso imperscrutabile e deciso di un boia. Una salvezza arrendevole e conclusiva che farà sì che il vuoto porti via ogni cosa, ad iniziare da questo inutile e opprimente mucchio di pensieri e di parole, di esperienze e di vibranti e melodiche emozioni.
Ci incammineremo, sempre più simili a fantasmi, alleggeriti dal carico delle passioni umane, lungo un sentiero sul quale incontreremo lo sguardo spento di statue mute ed immobili, ma c’è ben altro oltre questa lugubre e drammatica verità. C’è qualcosa là sotto, sotto strati e strati di pietra dura, c’è qualcosa che continua, imperterrito, a pulsare, lasciando che gli occhi nascosti della nostra mente possano aprirsi su mondi costruiti per accogliere il tocco gentile di una mano, il sapore amaro di una lacrima, il respiro affannato di un uomo ferito, donando a tutti, senza alcun giudizio di gratuito disprezzo e sciocca derisione, il tempo necessario per riflettere, per comprendere e per voltare, finalmente, pagina.
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