Al così detto Primo Mondo, che negli anni successivi alla fine della II Guerra Mondiale aveva conosciuto solamente crescita e prosperità – tant’è vero che, in alcuni paesi, come l’Italia, si parlava di un vero e proprio miracolo economico – dovette sembrare un vero e proprio incubo ciò che avvenne nel 1973, quando una crisi economica senza precedenti, che affondava le sue radici nella brusca carenza di petrolio e nel conseguente aumento stellare dei prezzi dell’energia, riportò, improvvisamente, le persone a fare i conti con ristrettezze, difficoltà e sacrifici quotidiani che si pensava fossero solamente un brutto ricordo.
Nel nostro paese, ad esempio, ciò portò a tutta una serie di interventi di austerità che andavano dal divieto di circolare in auto nei giorni festivi, alla chiusura alle 23 di cinema, bar e ristoranti, fino all’obbligo di spegnere le insegne e le vetrine dei negozi. I paesi e le città piombarono, di conseguenza, in una sorta di funesta e gelida atmosfera post-apocalittica nella quale il divario economico tra le persone comuni, che avevano difficoltà di ogni tipo – dal riscaldamento all’approvvigionamento di beni di prima necessità – e le ristrette caste politico-finanziarie che si nascondevano dietro gli aumenti e l’inflazione, le fluttuazioni monetarie e le speculazioni, si allargava sempre più.
Fu allora che si iniziò a parlare apertamente di crepuscolo del modello economico basato sullo sfruttamento del petrolio, ma, in realtà, si stava semplicemente preparando il terreno affinché il modello di produzione, di consumo e di controllo liberista si affermasse, nel successivo decennio, in tutto il mondo.
In un anno così complesso, caratterizzato dall’instabilità politica, dalle tensioni sociali, dai disagi economici e da un clima distropico da fine-civiltà, molti uomini e molte donne sentirono il bisogno di rivolgere il loro sguardo altrove, alle infinite, attraenti e misteriose profondità dell’universo, agli innumerevoli mondi che esistevano oltre il nostro sistema solare, tentando di trovare le risposte di cui avevano bisogno nell’oscurità, su quello che era il lato, perennemente nascosto e sconosciuto, della Luna. Il lato più buio e più freddo delle nostre coscienze, che, in un certo senso, era più prossimo a quelle che erano le difficoltà e le inquietudini del momento, ma che, allo stesso tempo, si apriva ad un futuro, il quale, per quanto oscuro e ignoto, appariva comunque un’alternativa migliore rispetto allo sciagurato, torbido e precario presente nel quale una intera generazione, quella degli anni Settanta, anche a causa di scelte politiche sconsiderate e spesso opportunistiche, era improvvisamente sprofondata.
Dunque, visto che, come detto, questo viaggio fantastico parte dal nostro Sole, il primo album pubblicato nel lontano ’73, con il quale incrociamo le nostre parole è “Tales From Topographic Oceans” degli Yes; una narrazione, pervasa da trame e atmosfere progressive-rock, il cui obiettivo è oltrepassare i confini della realtà e della materia e cercare certezze e conforto nel mondo spirituale, superando quella eterna e faticosa lotta che è la vita. Una infinita contrapposizione di pura malvagità e puro amore, nella quale, spesso, restiamo invischiati, dimenticando di scegliere la nostra strada, di seguire quelle che sono le nostre vere passioni e soprattutto di dare un senso, prima che sia troppo tardi e cali il definitivo sipario, a quelle energiche e lucenti memorie stellari che ci hanno plasmato e che continuano a splendere dentro di noi.
Un bisogno di ritrovare l’armonia perduta che si respira anche nelle sonorità spaziali e progressive di Emerson, Lake & Palmer, i quali svelano, attraverso il proprio “Brain Salad Surgery”, l’approssimarsi di un futuro compulsivo e irrazionale, nel quale il genere umano, sopraffatto dal proprio ego individualista, finirà in una sorta di circo mediatico. La diversità sarà esposta al pubblico ludibrio, sarà ritenuta meritevole di qualsiasi offesa, cattiveria o violenza, una massa assuefatta di zombie dalle sembianze umane decida di mettere in atto. Un mondo decisamente ostile, che, in parte, richiama “Arancia Meccanica” – uscito solamente due anni prima – fatalmente incamminato verso la propria auto-distruzione. L’ultimo filo d’erba rimasto sul globo, infatti, è, in bella mostra, nella teca d’un museo, mentre gli ultimi esseri umani, ormai stanchi e sconfitti, cedono il controllo del proprio destino alle macchine e ai computer e della grandezza dell’antica Gerusalemme cantata da William Blake non restano che silenziose e irriconoscibili rovine.
La fine dell’era degli esseri umani coinciderà, dunque, con l’inizio dell’era delle macchine; un nuovo mondo, libero dalle ossessioni, che in “Cyborg” di Klaus Schulze assume un sapore elettronico e sacrale. Un mondo che sarà abitato e governato da quella che è la nuova creatura sintetica, generata dal seme fragile degli uomini, ma in grado di svincolarsi da quelle che sono le limitazioni del tempo e delle spazio, mentre un nuovo culto, fondato sulla scienza, sulla infallibilità binaria degli elettroni, aprirà, finalmente, le porte dell’universo a quelli che sono destinati ad essere i nuovi padroni senzienti delle stelle. E degli uomini, intanto, della loro grandezza, dei loro sogni, delle loro tragiche passioni e dei loro colpevoli errori non resterà che polvere spaziale.
Un orizzonte di tempesta e di visioni terrificanti accompagna, intanto, quello che potrebbe davvero essere l’ultimo viaggio, mentre le sonorità complesse ed eterogenee dei King Crimson di “Larks’ Tongues In Aspic” ci propongono un groviglio di sogni di vita e di morte, di suoni crepuscolari e psichedelici che mettono a nudo quelle che sono le nostre preoccupazioni, le ansie, i dubbi e il respiro tremante che accompagna quelle che sono le nostre notti insonni. Infatti, se vecchi fantasmi, come quello della guerra in Vietnam, nel 1973, dopo due milioni di vittime e quattordici milioni di tonnellate di bombe, sembrano, finalmente, essere alle nostre spalle, nuovi e drammatici scenari si prospettano dinanzi ai nostri occhi.
Il presidente Allende è stato assassinato, portando una intera nazione, il Cile, sotto la brutale e repressiva dittatura di Pinochet; una dittatura militare scandita da torture, campi di concentramento, censura, giustizia sommaria, scioglimento dei partiti politici e corruzione dilagante. Un’altra guerra, intanto, infiamma il Medio-Oriente, da un lato ci sono la Siria e l’Egitto, dall’altro Israele e il suo fatale rifiuto, nonostante una risoluzione ONU del ’67, a restituire i territori palestinesi occupati; una guerra che condurrà all’embargo dell’OPEC, alle successive speculazioni finanziarie, alla conseguente crisi energetica mondiale, al clima di austerità e recessione dietro il quale si nasconderà una delle più grandi truffe, ordite da partiti di governo e dirigenti di multinazionali, a scapito dell’ignaro popolo italiano.
Non c’è notte così buia da impedirti di cercare l’Ariete, simbolo di rinascita e di ritrovata speranza, che, attraverso elementi jazzistici e avanguardisti, attraverso echi e riverberi temporali, senza mai dimenticare l’essenza folkloristica e caleidoscopica delle nostre origini più pure, selvagge e ancestrali, ci apre le porte di quella dimensione ultraterrena, fluida e versatile che è “Sulle Corde Di Aries” di Franco Battiato. La sua è un’esperienza mistica e musicale che tenta di ritrovare l’armonia smarrita, la pace brutalizzata, tentando di coniugare l’umano e l’artificiale, riportando in superficie i bisogni insiti nelle profondità del nostro spirito. La libertà, innanzi tutto, come atto conclusivo e giusto di qualsiasi rivoluzione; il dubbio come necessario e indispensabile momento di crescita e maturazione; il sogno come vera fuga dalla realtà, in modo da ritrovare quella dimensione atemporale nella quale risiede il nostro vero io.
Ed è proprio in questo buco dello spazio-tempo, laddove passato e futuro sono la medesima cosa, che risiede “Future Days” dei CAN, che travalica i confini del semplice disco, riuscendo a prevedere quello che sarà il cammino della musica elettronica nei decenni a venire. Il messaggio futurista della band tedesca indica al mondo la via della contaminazione: funk, fusion e jazz non sono creature estranee, ma sono elementi essenziali del rock elettronico che guarda ai segreti della matematica e della fisica, alle forze che pervadono il cosmo, alla voce della nostra coscienza che, per quanto possa essere rumorosa, disordinata e frenetica la nostra quotidianità, riesce sempre a farsi sentire e a metterci dinanzi a quelle verità che, spesso, preferiremmo ignorare.
Verità che caratterizzano la nostra stessa esistenza: lo scorrere inesorabile del tempo, la brama di potere e di ricchezza che frequentemente sfocia nella violenza e nella guerra, le difficoltà e le diffidenze che ci impediscono di comunicare portando alcuni di noi, quelli più fragili, quelli che sono derisi perché ritenuti diversi, verso quel limite insopportabile di odio oltre il quale ci sono, in agguato, la solitudine, la follia, la malattia e la morte. In “Dark Side Of The Moon” dei Pink Floyd, ultimo atto di questo nostro viaggio astrale nei meandri del 1973, è concentrata una narrazione umana fatta di sogni e di incubi, di eccezionali slanci d’amore e abominevoli passaggi di pura malvagità, di crudo sarcasmo e preziosa empatia, di tutto ciò che solitamente è visibile, certo, chiaro e riconoscibile e tutto ciò che, invece, si agita e si nasconde su quello che è il lato oscuro e sconosciuto della Luna, quello che non è rivolto alla Terra, la nostra madre e la nostra casa, bensì agli abissi impenetrabili dell’universo, verso i quali i sette album di questa storia orientano il loro sguardo e la loro curiosità perché non fummo fatti per viver come bruti, ma per seguir virtute e conoscenza.
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