Era, Iside, Demetra, Kali, Ishtar, nelle grandi madri la vita e la morte sono intrinsecamente correlate tra loro; le madri sono simbolo di sicurezza e di protezione, di nutrimento e di tenerezza, ma nel prolungamento eccessivo della loro funzione di guida e di nutrice è insito, purtroppo, il rischio dell’oppressione e del soffocamento. Gli esseri umani hanno la necessità, quindi, di spezzare questo legame, di intraprendere un percorso di conoscenza e di sperimentazione, senza timore di fallire e di dover ricominciare, prima di ritornare, alla fine del viaggio, all’abbraccio materno della terra, la quale custodisce, nel suo grembo oscuro, quel ciclo di morte e di rinascita che consente alla vita di rigenerarsi, di essere più forte del tempo, di fare tesoro di quelle storie fatte di gioia e sofferenza, di incontri ed addii, di ricerca e delusione, di santità e dannazione, delle quali Joseph Martone, attraverso le trame profonde e folkeggianti della sua chitarra, si fa portavoce prezioso e fedele.
Un folk dall’animo cupo e malinconico che scava, a piene mani, nel terreno fertile, umido ed amorevole del blues più primordiale, quello che guarda alla purezza del passato, tempo che, messo al confronto con quella bolla vuota ed alienante che è il nostro presente, appare come un’epoca leggendaria ed estremamente luminosa, donando agli otto brani di “Honey Birds”, il suo ultimo album, un fascino e un’apertura cinematografica.
Quando ansie e frustrazioni diventano una vera e propria gabbia fisica e mentale, incatenando a compromessi superficiali e a sterili menzogne, i nostri sogni, i nostri sentimenti e le nostre idee, sentiamo il bisogno di ritornare alle origini, a com’eravamo prima di restare intrappolati in questi schemi ripetitivi di apparenza ed auto-controllo. Sentiamo il richiamo selvaggio e ancestrale di quell’amorevole abbraccio materno che è l’essenza di “St Cristopher”. Camminiamo, infatti, in un mondo di fantasmi rabbiosi che non ricordano più chi e cosa sono, schiavi di un presente senza tempo, senza inizio e senza fine; noi, però, non dobbiamo essere necessariamente come loro, possiamo e dobbiamo cambiare, trasformando stanchezza, cadute, malattie e paura nel nutrimento per le nostre passioni, per la nostra creatività e per la nostra fantasia, solo così potremo sentirci realmente appagati e potremo, un domani, ritornare a quell’abbraccio dal quale tutto ha avuto origine.
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