Era una notte buia e tempestosa quando Janet e Brad, una coppietta di sempliciotti, si ritrova con la ruota della propria auto a terra in una zona isolata e fuori mano e, non sapendo cosa fare, decide di avviarsi verso un castello che si vede in lontananza, pensando che quella potesse essere la propria salvezza. In realtà ad attenderli c’è il diavolo in persona, assieme ad altre strane, lascive ed equivoche creature, le quali spingeranno i due ignari fidanzatini ad esprimere, finalmente, quella che è la loro reale essenza, abbattendo quel terribile argine di finto moralismo che li teneva imprigionati. Il medesimo argine che, purtroppo, tiene imprigionata la società conservatrice, bigotta e reazionaria del 1975. E’ tempo, dunque, di oltrepassare ogni tabù sessuale, di svincolarsi dalle antiche credenze di natura etica, sociale o religiosa e di scoprire sé stessi, i propri gusti, i propri orientamenti, le proprie passioni, senza aver più paura dei giudizi e delle opinioni che la società e le istituzioni tentano di imporre alle persone comuni. “The Rocky Picture Show” e la sua celebre colonna sonora rappresentano una svolta in tal senso, permettendo a questa parodia horror-rock omni-sessuale di risuonare come un vero e proprio impetuoso slancio di liberazione da ogni pregiudizio e ogni preconcetto: è finito il tempo nel quale dovevamo limitarci a sognare di nascosto, ma è arrivato il momento di mettere in pratica ogni nostra fantasia e, come dice il diabolico Dr. Frank-N-Furter, di farla finita con quell’ottuso, fastidioso e arrogante atteggiamento che ci spinge a giudicare qualsiasi libro solamente dalla sua copertina!
Che nel 1975 vengano seminate idee fondamentali che germoglieranno negli anni immediatamente successivi, sospingendo il mondo intero verso il futuro, è evidente. Proprio in quest’anno un ignoto informatico originario di Seattle abbandona l’università di Harvard e decide di fondare la sua società, sognando, un domani, la presenza di un calcolatore elettronico in ogni singola casa d’America e perché no del mondo. Stiamo parlando, ovviamente, di Bill Gates e della sua Micro-soft, nata, appunto, per produrre il software necessario a questi microcomputer domestici. Intanto, dall’altro lato dell’oceano Atlantico, Malcolm McLaren e Vivienne Westwood fondano, a Londra, il loro caratteristico e originale negozio di abbigliamento, il “Sex”, assoldando a scopi pubblicitari una vera e propria band e contribuendo alla diffusione, in maniera più o meno consapevole e opportunistica, di quel movimento che avrebbe modificato, per sempre, il modo con cui sia il pubblico, che gli stessi artisti, si sarebbero approcciati alla musica. Ma questa è una storia di cui parleremo un’altra volta.
Un anno di svolta e transizione, il 1975, anche per l’uomo dello spazio per antonomasia. Il Duca Bianco, infatti, decide di volgere il suo sguardo e la sua attenzione a sonorità, in un certo senso, più americane, nelle quali funk, black music, soul e rock & roll, potessero intrecciarsi tra loro e dare al suo nuovo disco più ritmo, più calore e più cuore. Viene pubblicato “Young Americans”, un album che avvicina l’artista inglese all’America, un lavoro al quale offre il suo prezioso contributo anche John Lennon, e che offre a David Bowie la possibilità di spogliare quella che è una divinità pop dalle sue vesti d’oro e d’argento, consentendogli di mostrare come, sotto la superficie abbagliante, l’abisso oscuro dell’auto-distruzione sia perennemente in agguato, bramoso di risucchiare qualsiasi moda, qualsiasi eroe, qualsiasi leggenda, qualsiasi fama.
E visto che l’abbiamo chiamato direttamente in causa, il 1975 è anche l’anno nel quale John Lennon mostra al mondo tutto il suo amore per il rock & roll, pubblicando il suo album di cover. Canzoni che ascolta e suona con leggerezza, toccando il suo apice di romantica e struggente passione in “Stand By Me”, mentre la solitudine irrompe nel buio delle nostre tremanti esistenze e solamente la Luna, da lassù, nel cielo, sembra decisa a offrirci l’indispensabile conforto, permettendo così alle ansie ed alle paure di non amplificare il vuoto, ma di trasformarsi in questo sublime canto di speranza e di vicinanza.
Necessità di avere qualcuno accanto con cui condividere le proprie idee, i propri pensieri e i propri sentimenti che emerge, con dirompente intensità, anche tra i versi ispirati di “Blood On The Tracks” nei quali uomini e donne tentano di trovare il proprio riparo dalla tempesta, nonostante, spesso, si è consapevoli che l’amore che stiamo disperatamente cercando e che stiamo caricando di aspettative, non potrà che deluderci e riempirci di malinconica tristezza. E’ il destino, sembra quasi sussurrarci Bob Dylan, e dobbiamo accettarlo, forse questo amore è solo un simbolo, una meta che ci mantiene vivi e che ci spinge ad andare avanti nel nostro viaggio di conoscenza e bellezza, obbligandoci a fare, nel modo migliore, ciò che deve essere fatto, magari dedicandolo a colei o colui che abbiamo amato in passato.
Intanto il rock a stelle e strisce apre nel ’75 un’altra gloriosa strada che è quella di Bruce Springsteen, cantore del sogno americano, della sua epicità che fa a botte con la drammaticità e la crudeltà dei tempi moderni, dei fatti e degli eventi che li caratterizzano, i quali, sempre più spesso, mostrano come sotto la retorica e le frasi di circostanza si nascondano squali pericolosi e perennemente affamati. Squali, che al di là della loro accattivante rappresentazione cinematografica che proprio in quest’anno, con il film “Jaws” di Steven Spielberg, diventerà il primo blockbuster della storia del cinema, rappresentano i peggiori istinti predatori insiti nell’animo umano. Un rabbioso miscuglio di violenza e brama di controllo e di potere che si abbatte soprattutto su coloro che si sentono ai margini del sistema, coloro che vivono nelle periferie metropolitane e nelle remote province dell’impero americano, un’intera generazione di ragazzi e di ragazze, intrappolati in una società soffocante e apparentemente perbenista che non esita a tagliare loro le ali, riducendo in brandelli ogni ideale, ogni tentativo di fuga o di ribellione.
Ma nessuna fine è già scritta, possiamo opporci a qualsiasi destino avverso. Ed è quello che, in pratica, succede con Lou Reed, capace di sollevarsi dall’incubo della depressione e della tossicodipendenza e dare alle stampe questo album nel quale la sua personalissima vicenda umana si intreccia con quella della sua città. New York, Brooklyn, Coney Island, storie di solitudine e amicizie finte e interessate, ma anche storie di passione che vanno al di là delle apparenze e del perbenismo, sdoganando la diversità sessuale, l’amore senza compromessi, inibizioni o barriere, sullo sfondo di una città-circo, una città-palude, una città-industria, una città-puttana che mette in mostra la vera essenza dell’America, i suoi torti e le sue colpe, i suoi angeli e i suoi diavoli, i suoi sorrisi e le sue lacrime.
Nell’anno nel quale Elizabeth Seton viene canonizzata, diventando la prima santa cattolica romana americana, la poetessa del punk, Patti Smith, rivendica con forza il pieno possesso dei propri peccati. I tempi sono ormai maturi per dare fuoco alle polveri delle contaminazioni artistiche e sonore: musica d’avanguardia, arti visuali, rumorismo, tecnologia, poesie metropolitane, blues, tutto ciò che può essere racchiuso tra i versi di Rimbaud e le canzoni dei Velvet Underground, senza alcun bisogno di definire confini o cercare formule, teorie o giustificazioni. E’ questa l’ondata nuova, la “new wave” che travolgerà gli anni Settanta, imponendo una sensibilità e un’apertura mentale più ampie alle quali, purtroppo, il sistema di potere dominante risponderà con una dose ancora più subdola, massiccia e velenosa di controllo; non a caso, infatti, il 1975 è anche l’anno nel quale, politicamente, personaggi che segneranno profondamente il mondo degli anni Ottanta e l’ascesa delle politiche si stampo liberista, come Margaret Thatcher e Ronald Reagan, iniziano a compiere passi decisivi verso il raggiungimento del potere.
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